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Ambiente / Intervista

Pesca ingiusta: gli squilibri di potere nel mercato ittico e gli impatti sulla salute

Abitanti del villaggio di pescatori di Orimedu (Stato di Lagos) © Arne Hoel / Banca Mondiale

La pesca intensiva praticata al largo delle coste dei Paesi africani sottrae agli abitanti preziose risorse alimentari e micronutrienti fondamentali, aumentando così il rischio di malnutrizione, soprattutto per i bambini. E il cambiamento climatico potrebbe aggravare ulteriormente la situazione. Intervista alla professoressa Christina Hicks

Buona parte del pescato in Senegal è composto da sardine, piccoli pesci molto abbondanti nelle acque dell’oceano Atlantico, su cui si affacciano diversi Stati dell’Africa occidentale. Una volta sbarcato dalle piroghe -uno degli elementi distintivi della pesca artigianale del Paese- viene in parte essiccato o affumicato per essere poi commercializzato.

“Durante uno dei miei ultimi viaggi di ricerca nel Paese ci siamo spostati nell’entroterra e abbiamo visitato un piccolo villaggio nella regione semi-desertica del Sahel, a circa quattrocento chilometri dal mare: quelle piccole sardine essiccate erano l’unico alimento di origine animale in vendita -racconta ad Altreconomia Christina Hicks, scienziata sociale e docente presso il gruppo di Ecologia politica del Centro per l’ambiente dell’Università di Lancaster nel Regno Unito-. Qui vivono comunità di nomadi e pastori: il latte delle loro capre è una buona fonte di nutrimento, ma non basta. Abbiamo visitato un ambulatorio medico una bambina di due anni, affetta da malnutrizione, era appena stata ammessa per essere curata: i medici consigliavano ai suoi genitori di integrare la dieta della piccola spezzettando nel cibo il pesce essiccato in vendita al mercato per permetterle così di assumere i nutrienti di cui aveva bisogno. Sono rimasta davvero sorpresa da quanto lontano avesse viaggiato quel cibo così umile, eppure fondamentale per l’alimentazione in condizioni ambientali così difficili”.

Christina Hicks studia i cosiddetti blue foods (ovvero gli alimenti di origine animale e vegetale prodotti dal mare) e le disuguaglianze nella loro produzione, distribuzione e consumo. Il settore della pesca dà sostentamento -direttamente o indirettamente- a circa 800 milioni di persone in tutto il mondo e genera un valore pari a circa 424 miliardi di dollari l’anno. Ma nasconde profonde disuguaglianze, a partire proprio dall’accesso a questo alimento.

Professoressa Hicks, negli ultimi anni ha dedicato particolare attenzione al tema delle carenze alimentari, in particolare per quanto riguarda i micronutrienti: un fenomeno che, si stima, interessi circa due miliardi di persone. Che conseguenze ha questa condizione?
CH
In realtà questo dato riguarda solo il numero di quanti soffrono di anemia, associata a carenza di ferro. Ma ci sono molti altri micronutrienti (zinco, calcio, vitamina A e B12) presenti negli alimenti di origine animale ed è molto importante che le persone, in particolare i bambini nei primi anni di vita, li assumano regolarmente. In caso contrario si osservano gravi carenze che possono portare a ritardi nello sviluppo fisico e mentale, fino a una morte precoce. Le risorse ittiche, da questo punto di vista sono straordinarie perché forniscono micronutrienti in buone quantità e sono facilmente accessibili anche alle fasce di popolazione più povera.

Christina Hicks insegna Ecologia politica presso l’Università di Lancaster

In uno studio, pubblicato su Nature nel 2019, lei ha analizzato la carenza di micronutrienti nei Paesi delle regioni tropicali dell’Africa. Che cosa è emerso?
CH Ero particolarmente interessata a capire l’entità del problema e in quale misura fosse necessario importare nuovi alimenti o fare ricorso a integratori: si tratta di strategie molto importanti quando si tratta di affrontare la sotto-alimentazione. L’analisi è stata molto complessa perché abbiamo dovuto costruire uno specifico modello per calcolare la quantità di nutrienti contenuta nelle diverse varietà di pesce (al mondo se ne consumano più di duemila specie diverse) per i vari Paesi che abbiamo analizzato. Abbiamo scoperto che in alcuni luoghi, come l’Africa occidentale, dove sappiamo che tra la popolazione ci sono importanti carenze di micronutrienti, questi sono ampiamente disponibili proprio nel pesce. In Namibia, ad esempio, sarebbe sufficiente indirizzare una quota compresa tra l’1% e il 5% del pescato per soddisfare le esigenze alimentari dell’intera popolazione costiera di età inferiore ai cinque anni. Quindi il lavoro successivo è stato cercare di capire perché quello che viene estratto dall’acqua non viene consumato da chi ne ha bisogno.

Che cosa è emerso da questa fase dello studio?
CH Parte della risposta a questa domanda sta nel fatto che spesso il pesce viene catturato, in maniera assolutamente legale, da imbarcazioni che battono bandiera di Paesi europei o asiatici. Poi c’è il tema del commercio: il valore del pescato è molto importante per l’economia degli Stati che decidono quindi di destinarlo all’esportazione. Di conseguenza, circa il 30% dei Paesi che abbiamo preso in considerazione nel nostro studio ha subito una perdita netta di nutrienti e metà di questi sono piccoli Stati insulari e nazioni africane molte delle quali registrano alti tassi di malnutrizione.

Oltre agli aspetti legati all’alimentazione, quali impatti sta avendo lo sfruttamento delle risorse ittiche nei Paesi dell’Africa occidentale?
CH L’impatto è enorme e si avverte in diversi ambiti, penso ad esempio al tessuto socio-economico. Non solo gli uomini, i pescatori, vengono progressivamente esclusi, ma lo stesso avviene anche alle donne delle loro famiglie, che tradizionalmente si dedicavano alla lavorazione e all’essiccazione. Poiché la pesca artigianale è sempre meno produttiva, le donne si ritrovano con quantità sempre minori di prodotto da lavorare e così provano ad adattarsi: quelle che hanno capitali sufficienti vanno ad acquistarlo direttamente dalle grandi società commerciali. Ma per avviare questo tipo di attività e restare sul mercato servono molte risorse; quindi, il numero di donne che riesce a vivere grazie a queste attività è molto minore rispetto a quelle che erano impiegate in un contesto artigianale.

© Nguyen Linh – Unsplash

L’acquacoltura può essere uno strumento efficace per garantire l’accesso alle risorse ittiche e per far aumentare l’occupazione nel settore?
CH Penso che l’acquacoltura possa svolgere un ruolo importante e abbia un potenziale enorme, ma allo stesso tempo bisogna affrontare i problemi che solleva. Ad esempio, se ne è parlato a lungo come strumento per alleggerire la pressione sugli stock selvatici, ma questo non è avvenuto: da 30 anni questi ultimi si sono stabilizzati mentre la quantità di pesci allevati è aumentata di anno in anno. C’è poi il tema dell’occupazione: creando nuovi posti di lavoro negli allevamenti ittici non si sostituiscono quelli persi nel settore della pesca tradizionale, ma si aggiunge un segmento nuovo senza risolvere il problema legato ai mezzi di sussistenza di chi ora non può più uscire in mare. Infine, c’è una questione alimentare e nutrizionale: dobbiamo chiederci se il pesce pescato soddisfi o meno lo stesso fabbisogno di sostanze nutritive di quello selvatico.

Può spiegare meglio?
CH Prendiamo il caso del Bangladesh: nel Paese l’acquacoltura ha avuto molto successo, sono diminuite le catture selvatiche ma la popolazione ha comunque potuto continuare a portare il pesce in tavola, garantendo così un buon apporto proteico alla propria alimentazione. Ma poiché la qualità dei micronutrienti è inferiore, di fatto la loro assunzione è in calo. Senza dimenticare che diversi studi hanno dimostrato come i consumatori che possono accedere al pesce da acquacoltura siano quelli più ricchi.

Che impatto sta avendo il cambiamento climatico?
CH Assistiamo a migrazioni dei pesci verso acque più fredde e anche a una diminuzione della taglia del pescato. Le catture, quindi stanno diminuendo e si prevede che si ridurranno ulteriormente, soprattutto ai tropici. Stiamo studiando anche che cosa succede alle concentrazioni di nutrienti nei pesci e anche qui osserviamo una riduzione, sempre nelle aree tropicali, e un loro aumento alle latitudini più alte. La disponibilità di pesce è destinata a diminuire con il cambiamento climatico: siamo di fronte a una tempesta perfetta.

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