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Esteri / Reportage

Tra i giovani del Gambia. Quando il futuro va lontano da casa

© Giorgio Sichera

Nonostante la fine della dittatura di Yahya Jammeh, povertà e corruzione restano diffuse nel Paese africano. L’emigrazione, con tutti i rischi che comporta, è spesso una strada obbligata per sostenere i nuclei familiari

Tratto da Altreconomia 259 — Maggio 2023

Sarjo è un gambiano di 29 anni, che vive a Yundum, cittadina satellite di Banjul, capitale del Gambia.Da diversi anni si trova in un limbo: affrontare il lungo viaggio che, attraverso la Libia, lo dovrebbe condurre alle coste italiane, o restare nel proprio Paese, in cerca di un lavoro dignitoso che sembra sempre più un miraggio? Quella di Sarjo è una tradizionale famiglia gambiana: come di prassi per la cultura musulmana, diffusissima nel Paese (dove l’Islam viene praticato dall’88,6% della popolazione), le donne svolgono le faccende domestiche, tra cui anche l’accoglienza in casa -che avviene, in maniera molto calorosa, nei tipici salotti d’ingresso delle abitazioni arabe- e si fanno carico del lavoro, prevalentemente agricolo o artigianale, nei piccoli appezzamenti di terreno che di solito ogni famiglia possiede.

In casa gli uomini, invece, si vedono poco. Anche in giro per le città e i villaggi se ne incontrano in numero decisamente inferiore rispetto alle donne e ai bambini. Fanno eccezione le zone “commerciali”, costituite da baracche a bordo strada dove lavorano meccanici, negozi di generi alimentari, cambiavalute e così via. Un gran numero di uomini adulti, infatti, non vive in Gambia. A loro spetta il compito di sostentare le mogli, i figli e i genitori anziani. Questo spesso comporta la necessità di lavorare all’estero. Sarjo ha cinque sorelle, ed è l’unico figlio maschio. Spetta a lui, dunque, garantire un reddito che permetta alla famiglia di vivere. Ma riuscirci, in un contesto come quello gambiano, è tutt’altro che scontato.

Il Gambia -piccola striscia di terra in Africa occidentale, quasi interamente circondata dal Senegal, eccetto per la zona costiera- è infatti un Paese poverissimo: nel 2022 si colloca al 174esimo posto su 191 Stati inclusi all’interno dell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni unite. Le situazioni di indigenza si fanno sempre più accentuate man mano che ci si allontana dalla costa, procedendo per una delle due sole strade asfaltate che attraversano il Paese da Ovest a Est, verso l’entroterra, dove l’economia è sempre più rurale e le condizioni di vita precarie. Se nelle zone costiere, capitale compresa, le abitazioni sono costruite con mattoni crudi autoprodotti (in diverse case si trovano ammassi di sabbia e argilla, oltre a mattoni rudimentali lasciati a essiccare al sole) con un impiego di cemento quasi del tutto privo di ferro, nelle zone interne si vive invece in capanne di paglia, fango e foglie.

Nonostante la cacciata del dittatore Yahya Jammeh, che ha governato il Paese dal 1996 al 2017, la situazione in Gambia non sembra essere cambiata. Gran parte della popolazione riponeva grandi speranze nell’attuale presidente, Adama Barrow, il quale sta provando a fare chiarezza sui crimini commessi dal suo predecessore ma sembra non essere in grado di estirpare la dilagante corruzione presente a tutti i livelli nel Paese, al punto da essere stato egli stesso accusato di connivenza con questo sistema.

Il Gambia è il più piccolo Stato dell’Africa occidentale ed è completamente circondato dal Senegal, a eccezione della fascia costiera affacciata sull’Oceano Atlantico. Si colloca al 174esimo posto su 191 Paesi nell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni unite

Di fatto, con il passaggio di potere, per la quasi totalità dei gambiani non è cambiato molto e la situazione economica resta complessa. Per chi ha la fortuna di avere un lavoro ben remunerato (poliziotti, insegnanti e funzionari pubblici), lo stipendio medio è di circa 3.500 dalasi al mese, equivalenti a circa 53 euro. Il costo della vita è più basso rispetto agli standard occidentali, ma non in maniera così netta: un sacco da 50 chilogrammi di riso costa 1.850 dalasi (28 euro), una lattina di Coca-cola -consumatissima nel Paese- 35 dalasi (0,55 euro), mentre un litro di benzina ne costa 75 (1,15 euro).

A questo si aggiunge il fatto che i pochi servizi pubblici presenti, a partire dalla scuola, sono tutti a pagamento: un anno di istruzione elementare per uno studente maschio in Gambia costa quattromila dalasi (59 euro), mentre per la secondaria inferiore e superiore si arriva a cinquemila all’anno. Bambine e ragazze non pagano l’iscrizione, ma devono comunque sostenere i costi per il materiale didattico e le uniformi obbligatorie (che sono a pagamento per tutti) pari a circa quattromila dalasi. Ancor più inaccessibile è un anno accademico alla University of Gambia: l’iscrizione supera i diecimila dalasi (148 euro).

Il Gambia si colloca al 174esimo posto su 191 Paesi nell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni unite © Giorgio Sichera

Qualche altro dato relativo alle spese quotidiane rende bene l’idea del costo della vita nel Paese: un abbonamento wi-fi costa l’equivalente di 29 euro, mentre per acquistare un terreno di circa 400 metri quadrati a Yundum, dove vive Sarjo, servono tra i 600 e i 700mila dalasi.

Cifre molto elevate anche per chi può contare su uno stipendio pubblico, inarrivabili per chi svolge mansioni meno qualificate come Sarjo, che lavora in una struttura ricettiva per mille dalasi (15 euro) al mese dopo aver completato tutto il ciclo di studi ed essersi appositamente specializzato. Mentre chi vende frutta e verdura o gestisce piccole attività commerciali (ad esempio i numerosi gestori di money transfer) ne guadagna in media duemila, pari a circa 29 euro al mese. Di conseguenza ogni famiglia in Gambia conta al proprio interno una o più persone costrette a emigrare per garantire la sopravvivenza di genitori anziani, fratelli più piccoli, moglie e figli inviando loro regolarmente parte del proprio stipendio. È solo grazie a questo meccanismo che l’economia gambiana si regge in piedi.

Le famiglie sono divise: se da un lato la partenza è necessaria, e pertanto auspicata, dall’altro si conoscono bene i rischi e le sofferenze dell’emigrazione

Ma al tempo stesso attorno a questo tema le famiglie sono divise: se da un lato la partenza è necessaria, e pertanto auspicata, dall’altro si conoscono bene i rischi e le sofferenze che un viaggio del genere porta con sé, oltre alle difficoltà di adattamento a una cultura e a un contesto sociale differenti. Proprio per evitare il passaggio dalla Libia, parte degli emigrati decide quindi di fermarsi in altre Paesi del Nordafrica, anche se le prospettive economiche sono di gran lunga inferiori rispetto a quelle offerte dall’Europa. Per tutti questi motivi, i ragazzi gambiani raccontano che solitamente la partenza da casa avviene di notte e senza avvisare nessuno, nemmeno i genitori o i fratelli. “Se lo avessi detto a qualcuno non ce l’avrei fatta, sarei tornato subito indietro”, racconta Maalang che vive in Italia ormai da sei anni e ha fatto rientro per la prima volta in Gambia lo scorso febbraio.

Anche i dati sulle richieste d’asilo riflettono la difficile situazione economica del piccolo Stato africano. Nonostante le modeste dimensioni e i poco più di due milioni di abitanti, sono stati 1.087 i gambiani che hanno presentato richiesta di protezione nel nostro Paese nel 2021; un numero che non si discosta molto da quelli di senegalesi, somali e maliani, provenienti da Paesi ben più popolosi.

Il 70% degli oltre 3.600 migranti gambiani che, dal 2017, sono ritornati nel Paese d’origine, lo ha fatto attraverso programmi di “rimpatrio assistito” dalla Libia

In parecchi casi, poi, il viaggio non va a buon fine. Chi viene respinto e costretto a tornare in Gambia preferisce non parlare della propria situazione, ma le loro storie sono ben conosciute tra la gente del posto. Quello dei respingimenti è un problema che aggrava ulteriormente la situazione nel Paese. Come riferisce il report sull’immigrazione in Gambia a cura di Caritas italiana e Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) “i flussi di ritorno di giovani gambiani privi di prospettive, costretti a subire lo stigma del fallimento dell’esperienza migratoria all’interno della comunità̀ di appartenenza, hanno determinato un incremento della pressione sociale su risorse e opportunità occupazionali limitate.

Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dal 2017 più di 3.600 migranti gambiani sono rientrati nel Paese attraverso programmi di “ritorno volontario assistito”, il 70% dei quali provenienti dalla Libia, dove si trovavano reclusi in centri di detenzione, e il 25% circa dal Niger, principale Stato di transito dei flussi verso il Mediterraneo”. Sarjo, come altri migliaia di ragazzi, si trova pertanto in questa strettoia, per certi versi paradossale: partire verso l’ignoto o restare nell’incompiutezza. Sua madre, come molti altri genitori e familiari, quando ne ha l’occasione prova a “sponsorizzare” la partenza del figlio per l’Europa, pregando che questa possa avvenire per vie legali e sicure. Circostanza che -come ricordano i numeri del recente “Decreto flussi”- appare pressoché irrealizzabile.

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