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Crisi climatica / Attualità

Perché l’Italia è stata condannata a risarcire la multinazionale Rockhopper

Piattaforma petrolifera offshore © depositphotos

La decisione annunciata a fine agosto è stata presa sulla base di un trattato internazionale che permette alle compagnie fossili di fare ricorso contro le politiche ambientali dei Paesi europei. Per Paul De Clerck di Friends of the Earth Europe l’Energy charter treaty è “uno strumento molto pericoloso e che mina la transizione energetica”

Lo Stato italiano è stato condannato a pagare 190 milioni di euro (più interessi) alla società britannica Rockhopper per compensare il mancato sfruttamento del giacimento petrolifero “Ombrina mare” situato davanti alle coste abruzzesi. Il processo però non si è svolto davanti a un giudice ordinario ma nell’ambito di un Investor-State dispute settlement (Isds), un arbitrato internazionale chiamato a decidere sulle controversie tra “investitori privati” e Stati che è previsto in numerosi trattati internazionali. In questo caso si tratta dell’Energy charter treaty (Ect), che disciplina lo sfruttamento delle risorse energetiche, gli investimenti e, appunto, i procedimenti di risoluzione delle controversie. “Questa decisione, che ci turba profondamente, rappresenta l’ennesimo esempio di come gli Investor-State dispute settlement stiano privilegiando l’interesse delle compagnie fossili rispetto all’interesse pubblico -spiega ad Altreconomia Paul De Clerck, program coordinator di Friends of the Earth Europe-. Inoltre si dimostra, ancora una volta come l’Energy charter treaty sia uno strumento molto pericoloso nelle mani delle compagnie fossili e che mina la transizione energetica”.

La vicenda ha avuto inizio nel 2015 quando il governo italiano -anche sulla spinta di un’importante mobilitazione dei cittadini e della società civile- ha bloccato i progetti per lo sfruttamento dei giacimenti fossili in mare entro le 12 miglia dalla costa. Quello stop ha interessato anche il progetto “Ombrina mare” avviato nel 2005 dalla società “Mediterranean oil & gas” che aveva ottenuto il permesso di esplorazione e che nel 2014 è stata acquisita da Rockhopper per 29,3 milioni di euro. Nel 2017, a seguito della citata decisione del governo di interrompere lo sfruttamento dei giacimenti entro le 12 miglia, la società britannica ha quindi avviato un arbitrato contro l’Italia chiedendo un risarcimento di 324 milioni di dollari, a compensazione delle spese sostenute per l’esplorazione del giacimento e dei mancati guadagni derivati dallo sfruttamento dello stesso.

L’arbitrato ha stabilito che il governo italiano dovrà pagare una cifra enorme: ai 190 milioni di euro di compensazione, infatti, si aggiungono interessi pari al 4% all’anno dal 2016 e fino al momento del pagamento. Il totale, secondo i calcoli fatti da Climate action network, dovrebbe essere di circa 250 milioni di euro, nove volte l’investimento iniziale. “Una cifra che supera in maniera significativa l’investimento -commenta l’organizzazione in un comunicato in cui ha definito il pronunciamento ‘scandaloso’ alla luce dell’emergenza climatica e della crisi energetica che stiamo attraversando-. Ma l’Energy charter treaty permette alle società di citare in giudizio gli Stati non solo per gli importi effettivamente spesi ma anche per i futuri guadagni persi”. L’Ect è stato ampiamente criticato da diverse organizzazioni ambientaliste a causa dei poteri discrezionali che conferisce alle compagnie fossili di fare causa ai Paesi quando le misure a protezione del clima e dell’ambiente minacciano i loro profitti: “Dà alle aziende il potere di aggirare le leggi nazionali, istituendo un sistema giudiziario parallelo a cui solo loro hanno acceso”, continua Climate action network.

Un aspetto paradossale della vicenda che ha visto contrapposti Rockhopper e il governo italiano sta nel fatto che nel 2016 il nostro Paese aveva scelto di ritirarsi dall’Ect ma quell’accordo continua a produrre i propri effetti per la presenza di una clausola che permette alle aziende di ricorrere agli arbitri internazionali fino a 20 anni dopo l’effettiva uscita della “controparte”.

Il trattato sull’energia è alla base di altri arbitrati internazionali che vedono contrapposte società dell’industria fossile e governi di Paesi europei. “Ci sono due casi che ci preoccupano -spiega Paul De Clerck-. Il primo riguarda la causa presentata dalla società energetica tedesca Rwe contro il governo olandese con la richiesta di un miliardo di euro per la decisione assunta da quest’ultimo di eliminare gradualmente gli impianti a carbone fino al phase out nel 2030. Il secondo riguarda la società  britannica Ascent Resource che nel 2020 ha avviato un arbitrato contro il governo sloveno in merito a un controverso progetto di fracking“. Una buona notizia arriva invece da Berlino: ad agosto l’azienda energetica Uniper è stata costretta a rinunciare all’arbitrato nei confronti dei Paesi Bassi -relativo, anche in questo caso, alla chiusura anticipata delle centrali a carbone- dopo che l’esecutivo del cancelliere Olaf Scholz ha approvato un pacchetto di salvataggio da 8 miliardi di euro a favore della compagnia. Secondo quanto riporta il Financial times l’amministratore delegato di Uniper, Klaus-Dieter Maubach, ha dichiarato che la società ha provato a resistere al passo indietro “perché sentivamo di non doverci arrendere”. Ma la rinuncia all’arbitrato è stata chiaramente imposta dall’esecutivo tedesco come condizione per accedere agli aiuti.

“I Paesi europei sono ormai consapevoli del fatto che l’Energy charter treaty è problematico. Tre anni fa hanno avviato i negoziati per la sua revisione e lo scorso giugno è stato raggiunto un accordo per ridurre le protezioni a vantaggio degli investimenti per quanto riguarda i combustibili fossili -conclude De Clerck-. Tuttavia pensiamo che questo compromesso non sia sufficiente, non solo perché lascia ancora ampia tutela agli interessi fossili ma perché addirittura aumenta i progetti che possono esservi inclusi, come quelli per lo sviluppo dell’idrogeno, del biogas o dei sistemi di cattura e stoccaggio del carbonio. Molti governi, come quelli di Francia, Spagna, Germania e Polonia, hanno detto di non essere soddisfatti dell’esito di questa mediazione per questo noi chiediamo ai governi europei di seguire l’esempio dell’Italia e uscire dall’Ect”.

Questo significa che Rockhopper non opera più in Italia? Niente affatto: secondo quanto riporta l’ultima edizione del Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse pubblicato il 31 marzo 2022 dal ministero della Transizione ecologica, nel nostro Paese sono attive due società (Rockhopper Civita e Rockhopper Italia) che fanno riferimento al colosso petrolifero inglese. La prima -che ha sede legale a Londra- è titolare di un permesso di ricerca (per un’area complessiva di 276,57 chilometri quadrati) e di una concessione di coltivazione sulla terraferma. Mentre Rockhopper Italia ha un permesso di ricerca, quattro concessioni di coltivazione in terraferma (per un totale di 52,80 chilometri quadrati) e due concessioni di coltivazione nel sottofondo marino. Rockhopper Italia figura anche in una joint-venture con Eni. Nel 2020, l’ultimo anno in cui risulta che Rockhopper abbia versato allo Stato royalties per la produzione di idrocarburi, il gettito riferito alla multinazionale ammonta a poco più di 190mila euro. Inoltre, dalla lettura dei bilanci societari emerge che Rockhooper Italia ha ceduto lo scorso anno a Rockhopper Civita le proprie attività principali, motivo per cui il 25 maggio 2021 il ministero per la Transizione ecologica ha rilasciato l’autorizzazione preventiva alla cessione di tutti i rapporti e in particolare dei titoli minerari facenti capo a Rockhopper Italia in favore di Rockhopper Civita a eccezione dei rapporti connessi al contenzioso “Ombrina mare”.

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