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Cattura di anidride carbonica: quel “magico unicorno” che non salverà l’industria fossile

© Deposithphoto

Le grandi aziende di gas e petrolio scommettono sulla cattura e stoccaggio del diossido di carbonio. Ma oltre a essere insufficiente rispetto alle esigenze della decarbonizzazione, la tecnologia non mette al riparo da un orizzonte “net zero” e dal crollo della domanda. I dati del think tank indipendente Carbon Tracker

Le grandi aziende petrolifere statunitensi stanno investendo miliardi di dollari per sviluppare tecnologie finalizzate a catturare e stoccare l’anidride carbonica (Carbon capture utilisation and storage, da cui l’acronimo Ccus) con l’obiettivo -dichiarato- di abbattere le emissioni dei loro impianti e raggiungere la neutralità climatica. Chevron ha pianificato di installare entro il 2030 impianti di Ccus in grado di estrarre ogni anno 25 milioni di tonnellate di CO2 (MtCO2) mentre Exxon Mobil progetta di costruire un singolo impianto con una capacità di 100 MtCO2 all’anno entro per il 2040 con un investimento complessivo di 100 miliardi di dollari, tra pubblico e privato. Tuttavia la costruzione di questi impianti rischia non solo di essere una falsa soluzione per la decarbonizzazione ma non protegge nemmeno l’industria dalla futura diminuzione del consumo di combustibili fossili. Lo mostra la ricerca “A magical Ccus unicorn will not save the oil industry” pubblicata a metà luglio di quest’anno da Carbon Tracker, think tank indipendente che analizza l’impatto della transizione energetica sui mercati. “La minaccia più grande per il settore oil&gas è il crollo della domanda -annotano gli analisti di Carbon tracker-, con il passaggio del mondo a modelli energetici net zero e a basse emissioni di carbonio. In questo caso il Ccus offre scarsa protezione”.

Carbon Tracker evidenzia come uno dei principali limiti delle tecnologie di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica sia la sproporzione esistente tra la quantità di gas sequestrati e il volume che invece viene emesso ogni anno: secondo i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) nel 2021 la capacità degli impianti Ccus era pari a 43,7 MtCO2, appena un millesimo rispetto al totale delle emissioni globali che nello stesso periodo, come mostra il grafico qui sotto, hanno superato le 40mila MtCO2. Se proviamo a guardare più nel dettaglio la situazione non cambia: nel 2019 le emissioni totali della sola Chevron furono pari a 697 MtCO2 a fronte di sole 25MtCO2 “catturate”, ovvero il 3,6% del totale.

Fonte: Elaborazione a cura di Carbon Tracker su dati Iea, 2022

Inoltre molti impianti per il sequestro di carbonio vengono progettati e attivati per giustificare lo sfruttamento di nuovi giacimenti fossili. “Due terzi dell’attuale capacità Ccus sono utilizzati per eliminare, durante le fasi di lavorazione, la CO2 che si trova naturalmente mescolata al gas fossile. Questa operazione viene svolta principalmente per soddisfare le specifiche di vendita e per evitare danni agli impianti di produzione ma viene sempre più richiesta per adeguarsi alle norme ambientali e per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni delle aziende”, continua Carbon Tracker. Anche in questo modo si evita la dispersione in atmosfera dell’anidride carbonica estratta insieme al gas ma questo non basta a compensare le emissioni climalteranti aggiuntive derivate dall’avvio di nuovi pozzi. “Peggio ancora, questi progetti sono spesso utilizzati per giustificare lo sviluppo di giacimenti di gas ad alto contenuto di CO2, con il pretesto di ridurre le emissioni. I nuovi progetti Ccus di trattamento del gas comportano generalmente un aumento netto del livello assoluto di emissioni atmosferiche, in quanto consentono l’estrazione di ulteriore gas fossile”, evidenzia la ricerca. Un ulteriore problema riguarda l’attuale utilizzo del carbonio sequestrato, secondo le analisi della Iea, infatti, il 73% della CO2 catturata in questo modo viene iniettata nei giacimenti petroliferi per facilitare l’estrazione di idrocarburi aumentando quindi in modo indiretto proprio le emissioni climalteranti.

In parallelo alla Ccus esistono progetti che permettono di catturare l’anidride carbonica direttamente dall’aria (Direct air carbon capture storage, Daccs) senza essere vincolati all’industria fossile: sulla carta queste tecnologie permetterebbero una riduzione della concentrazione dei gas serra in atmosfera ma sono poco sviluppate. Esistono infatti solo 19 progetti di Daccs al mondo e il più grande, che si trova in Islanda, ha una capacità di 0,004 MtCO2 all’anno. Inoltre si tratta di una tecnologia estremamente costosa (per rimuovere una tonnellata di anidride carbonica si spendono tra i 600 e gli 800 dollari) a causa della bassa concentrazione di CO2 in atmosfera rispetto a quella presente nei fumi di scarico di una raffineria o di un’industria.

“L’elettricità rinnovabile è già più economica del gas, le vendite di auto elettriche sono in aumento e l’idrogeno ‘verde’ colmerà molte delle lacune. Aumentare i costi dei progetti sui combustibili fossili legandoli al Ccus è una ricetta inadeguata per tentare di resistere a un futuro in cui i prezzi delle rinnovabili saranno sempre più bassi”, ribadiscono da Carbon Tracker. La cattura di carbonio, tuttavia, potrebbe trovare spazio per la decarbonizzazione di settori come l’industria dell’acciaio o del cemento che non hanno attualmente a disposizione un’alternativa pulita all’uso di fonti fossili. Secondo il programma net zero dell’Agenzia internazionale per l’energia, però, sarebbero necessari impianti di Ccus per una capacità di estrazione di 1.600 MtCO2 l’anno entro il 2030. Soglia lontanissima. “Il Ccus dovrebbe essere riservato ai settori più difficili da decarbonizzare -conclude quindi Carbon Tracker- non per compensare le emissioni degli idrocarburi, facilmente sostituibili con l’elettrificazione e le energie rinnovabili”.

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