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Nel dibattito sul Meccanismo europeo di stabilità è stato omesso un “piccolo” particolare

© Alexander Mils - Unsplash

Lo scontro campale sul Mes copre la vera questione: non si tratta infatti della ratifica di un trattato che esiste da tempo, ha le prerogative per essere utilizzato e rispetto al quale l’Italia ha un peso rilevante. La discussione reale tocca invece una modifica, voluta in primis dalla Germania, che riguarda le banche. L’analisi di Alessandro Volpi

In questi giorni la politica italiana sta discutendo molto del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Il dibattito verte sulla mancata ratifica di tale strumento da parte del Parlamento italiano che sarebbe invece sollecitata dall’Europa per renderlo, a tutti gli effetti, utilizzabile. Bisognerebbe ricordare, in merito a ciò, che, in realtà, il Mes già esiste ed è già utilizzabile dai Paesi che volessero farne richiesta per finanziare la spesa sanitaria o per sostenere il proprio debito, sottoponendosi a particolari condizioni di “vigilanza” da parte dell’Europa.

Il Meccanismo in questione infatti è stato creato nel 2012 per effetto di un trattato intergovernativo, al di fuori del quadro giuridico dell’Unione europea. Questa caratteristica è tutt’altro che trascurabile perché tale strumento nacque per far fronte alla crisi del 2011 e soprattutto per evitare che crisi analoghe si ripetessero ma, sia per l’urgenza della sua costituzione sia per i dubbi sollevati dall’eccessiva onerosità delle condizioni poste ai Paesi che ne avessero fatto uso, venne deciso di non inserirlo in maniera organica all’interno dell’architettura istituzionale europea: una decisione legata anche al divieto, previsto dall’articolo 125 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, di “aiuti” a Stati membri in difficoltà.

Fin dall’origine, infatti, il Mes dispone di due forme di intervento, costituite dai prestiti, che impongono però vincoli molto impegnativi per i Paesi destinatari e, di fatto, una parziale limitazione della loro sovranità, e dalla linee di credito, meno intrusive nella politica economica dei singoli Stati, destinate soltanto a quelle realtà colpite da uno shock congiunturale ma dotate di una sostanziale solidità dei propri conti pubblici. In altre parole, il Mes, creato e funzionante dal 2012, ha presentato e presenta il grave limite di essere troppo duro per i Paesi molto indebitati e quasi inutile per quelli che potrebbero utilizzarlo senza grandi controindicazioni in quanto tali Stati, in genere, non ne hanno bisogno.

Non è un caso dunque che, in pratica, un simile strumento sia stato utilizzato assai poco e decisamente malvolentieri. Peraltro il trattato istitutivo ha previsto per il Mes un capitale di quasi 705 miliardi di euro, distribuiti tra i vari Stati firmatari, di cui ne sono stati versati solo 80 miliardi con un impegno italiano di 125 miliardi e un versamento di 14 miliardi: in virtù di questa contribuzione l’Italia risulta, insieme a Francia e Germania, in possesso di un vero e proprio potere di veto sulle decisioni prese dallo stesso Meccanismo.

L’attuale dibattito non riguarda quindi la ratifica di un trattato che esiste da tempo, ha tutte le prerogative per essere utilizzato e rispetto al quale l’Italia dispone di un peso rilevante. La discussione in corso è invece relativa ad una modifica particolare del Mes, voluta in primis dalla Germania, che consentirebbe di utilizzare lo stesso Meccanismo per operare salvataggi di banche in crisi. Dall’Accordo politico dell’Eurogruppo del 30 novembre 2020 scaturì l’idea di una riforma del Mes che aggiungeva alle possibilità di intervento di tale strumento quella di operare in direzione dei salvataggi bancari, riducendo così i margini di rischio per gli istituti di credito e contribuendo a consolidarne il valore azionario.

Per essere più ancora più chiari, ciò di cui sta discutendo “l’Europa” riguarda la modifica del trattato originario che serve solo a una cosa: a far salire il valore delle azioni delle banche. La “riforma” contiene infatti la possibilità di un intervento con risorse europee per evitare situazioni di crisi bancaria. Ora, se teniamo presenti i profitti stellari degli istituti di credito europei, a che cosa serve uno strumento del genere se non a far impennare ancora di più i valori azionari? È questa la modifica che non è stata ratificata dall’Italia: si tratta dunque di una questione molto particolare e non certo dell’impianto generale dello strumento, che, come detto, è già stato ratificato. Eppure la discussione politica sembra ignorare questa “piccola” particolarità e vuole farne una assurda e artificiale guerra campale, legandola in modo improprio e pericoloso al tema cruciale della riforma del “Patto di stabilità”. Le decisione sulla ratifica di una riforma molto parziale, a tutto vantaggio delle quotazioni bancarie, non dovrebbe certo essere il punto su cui definire le politiche di bilancio dell’Europa del futuro. 

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. “Prezzi alle stelle. Non è inflazione, è speculazione” (Laterza, 2023) è il suo ultimo libro

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