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Finanza / Opinioni

Mps, l’ultimo pasticcio: se l’aumento di capitale si traduce in una svendita ai privati

© Josh Appel - Unsplash

L’operazione in corso da 2,5 miliardi di euro è dettata dall’Ue e da una visione distorta degli aiuti di Stato. Il timore è che venga bruciato ulteriore denaro pubblico per favorire l’assorbimento del Monte da parte di alcuni grandi fondi internazionali. L’analisi di Alessandro Volpi

L’aumento di capitale di Mps è sempre più un colossale pasticcio nato da un’idea che si fatica a comprendere, pur avendo chiare tutte le difficoltà della banca senese. Aver pensato un aumento di capitale dove il valore dei titoli degli attuali azionisti è, di fatto, azzerato consegnandogli peraltro opzioni di acquisto vuote ha significato far capire ai mercati che l’attuale Monte non esiste più e che, con l’aumento, nasce una nuova banca, di cui però non è assolutamente chiaro chi sarà il futuro proprietario.

In tal senso si è confezionato un pericoloso salto nel vuoto ben al di là della rete di protezione delle garanzie del consorzio bancario. Tutto ciò ha provocato il crollo dei titoli nei giorni prima dell’operazione e poi il tonfo delle opzioni con la cancellazione degli azionisti attuali, a cominciare dallo Stato che ha visto bruciare tutte le ingenti risorse iniettate per l’ennesima volta nella banca. Le affermazioni di soddisfazione per l’avvio dell’operazione da parte del presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, erano quantomeno premature.

Ma vediamo meglio che cosa sta succedendo. Il Monte dei Paschi di Siena ha uno straordinario bisogno dell’aumento di capitale che è partito, malissimo, lunedì 17 ottobre. Si tratta di una richiesta di 2,5 miliardi di euro, di cui 1,6 miliardi iniettati dallo Stato. L’operazione ha trovato la garanzia per i 900 milioni restanti in larghissima prevalenza da un consorzio di banche in cui figurano alcuni dei colossi della finanza mondiale, da Bank of America a Santander fino al discusso Credit Suisse, angustiato da problemi sui propri crediti. Se dunque non verranno trovati compratori per le azioni da due euro, già in tensione nella prima seduta, saranno questi istituti a intervenire per consentire il completamento dell’aumento di capitale.

Tutto a posto dunque? Evidentemente no, come ha dimostrato il vero e proprio tracollo del valore delle stesse azioni di Mps che hanno perso oltre il 30% del loro valore all’indomani dell’annuncio delle modalità e dei tempi dell’operazione e poi sono arrivate a bruciare capitale fino alle pochissime decine di milioni di euro attuali. I dubbi, infatti, sono tanti. Una prima riserva ha natura molto tecnica ed è stata rilevata anche dalla Commissione nazionale per le società e la Borsa (Consob), l’organismo di controllo: l’aumento di capitale infatti ha carattere molto “diluitivo”, in particolare per il cambio delle azioni attuali con le nuove azioni, che avviene in un rapporto di 374 a tre e soprattutto in un arco di tempo destinato a generare una discrepanza tra il prezzo di mercato e il valore teorico.

In estrema sintesi le modalità dell’operazione potrebbero gonfiare artificialmente il prezzo; un rischio che, in realtà, non esiste perché proprio quel carattere “diluitivo”, come si accennava in apertura, ha provocato il crollo dei prezzi. Perché il vero problema è un altro. La banca senese ha ormai azzerato il proprio valore, dunque l’aumento di capitale da 2,5 miliardi costituirà di fatto una nuova compagine proprietaria, sulla cui composizione esistono varie incertezze, al netto del peso preponderante che continuerà a rivestire lo Stato, “costretto” a versare un’altra cifra importante dopo le tante capitalizzazioni finite in fumo. L’aumento dovrebbe servire a rafforzare patrimonialmente il Monte, facendo ulteriore pulizia nei crediti incerti, e dovrebbe dotare l’istituto delle risorse necessarie per procedere alla “ristrutturazione” interna, a cominciare dagli esuberi di personale, stimati in circa 3.500 dipendenti. Simili obiettivi discendono da quello che è il vincolo principale del Monte costituito dal fatto che continua ad essere valida la “prescrizione” europea secondo cui il suo azionariato deve tornare in mano ai privati per evitare il definirsi dell’intervento pubblico come aiuto di Stato. In altre parole, Mps deve trovare un compratore che sostituisca la larghissima predominanza del socio pubblico e l’aumento di capitale serve a mettere la banca senese nelle condizioni di essere realmente appetibile. Non siamo di fronte quindi a una soluzione del problema Mps ma solo all’ennesima toppa che dovrebbe rendere più semplice la ri-privatizzazione della banca. Proprio qui, tuttavia, emerge il problema più grande, a cui si accennava: esiste, nelle attuali condizioni dei mercati finanziari con una nuova strategia restrittiva della Bce, un interlocutore seriamente interessato a mantenere in vita la sostanza di Mps non limitandosi ad accaparrarsi la sua rete commerciale? È forte il rischio, infatti, che l’attuale aumento di capitale produca una compagine proprietaria interessata a favorire l’alleggerimento della banca senese per poi magari acquisirla a prezzi ancora più stracciati e a fare un vero e proprio spezzatino. In questo senso la reiterata volontà europea di obbligare alla ri-privatizzazione di Mps può essere lo strumento attraverso cui annientare gran parte della tradizione, e le potenzialità di una banca storica, certamente provatissima ma tenuta in vita dalle risorse pubbliche non per finire svenduta, una volta rivitalizzata. Un dato appare assai evidente già da adesso; è molto difficile che la presenza dello Stato possa essere sostituita da una grande banca italiana, in grado di realizzare una sana incorporazione di Mps. Il timore è che l’operazione in corso, dettata dall’Ue e da una visione degli aiuti di Stato in realtà applicata in maniera assai diversa da Paese a Paese, bruci ulteriore denaro pubblico e acceleri la fagocitazione del Monte da parte di alcuni grandi fondi internazionali, attraverso l’azione di qualche banca a stelle e strisce. Si tratterebbe dell’ulteriore tappa della “finanziarizzazione” del sistema bancario italiano, dove i rendimenti di Borsa valgono più di ogni altro indicatore.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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