Diritti / Approfondimento
Mondiali di calcio in Qatar: la partita dei diritti umani è già stata persa
Il 20 novembre iniziano i campionati mondiali in Qatar. Stadi avveniristici e alberghi all’avanguardia celano in realtà il pesantissimo costo umano della manifestazione, voluta in particolare dalla potente famiglia Al Thani. In Italia due libri hanno provato a ricostruire l’impatto della coppa del mondo: tra affari e “sportwashing”
“Qui si farà la storia” scrivono gli organizzatori dei Campionati mondiali di calcio 2022 in partenza in Qatar il 20 novembre. È uno degli slogan scelti dal governo che ospita la XXII edizione della manifestazione sportiva più seguita al mondo. La storia, in realtà, è già stata fatta: questi saranno i primi campionati in Medio Oriente e, sempre per la prima volta, le partite si giocheranno non in estate, come da tradizione, ma in inverno. Per far sì che queste “prime volte” si tramutassero in “successo” sono stati costruiti e rinnovati otto stadi che ospiteranno circa 1,2 milioni tra tifosi, giornalisti, membri delle squadre, per un investimento pari a quasi sei miliardi di euro. Numeri stellari dietro i quali c’è molto altro di cui, soprattutto in Italia, si è parlato a malapena. Fanno eccezione le voci di Valerio Moggia, autore del blog “Pallonate in faccia”, e di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia, rispettivamente autori dei libri “La Coppa del Morto” (Ultra Sport) e “Qatar 2022, i Mondiali dello sfruttamento” (Infinito Edizioni). Partendo da punti di vista diversi, entrambi cercano di fare luce su ciò che è in realtà Qatar 2022. In primis, affrontano la condizione precaria di oltre due milioni di lavoratori migranti da Asia e Africa, che costituiscono il 90% della forza lavoro dell’emirato. E in secondo luogo la questione dei diritti, negati non solo ai lavoratori, ma anche alle minoranze nel Paese, alle donne, alla comunità LGBTQ+, senza tralasciare il devastante impatto ambientale relativo alla costruzione degli stadi e al loro funzionamento.
Per capire come è iniziata “la storia di un Mondiale che non dovrebbe esistere”, come la definisce Moggia, occorre tornare indietro di diversi anni. “Siamo di fronte alla ‘lungimiranza’ della famiglia Al Thani, di fatto i proprietari e governanti del Qatar, che già dagli anni settanta iniziano a rendersi conto che gas e petrolio, di cui sono ricchi e che esportano in tutto il mondo, non sarebbero durati per sempre. E, quindi, sfruttando una quantità inimmaginabile di soldi, intraprendono un lungo percorso di diversificazione economica e costruzione di un’immagine positiva agli occhi dei consumatori dei diversi settori, inclusi i tifosi nel caso dello sport”. Barclays, Volkswagen, Porsche, Total, ma anche le italiane Leonardo e Air Italy, sono solo alcune delle multinazionali con cui Doha comincia a fare affari. Ma è dal 2008 in poi che l’ascesa del Qatar all’interno dell’economia occidentale subisce un’accelerazione. “I qatarioti arrivano nel momento in cui le economie europee e statunitensi soffrono di una crisi di liquidità -spiega Moggia ad Altreconomia-. Considerando le prospettive di ritorno economico, ne ha approfittato anche il calcio ma così facendo ha messo in secondo piano i diritti umani”. E così si arriva al 2010, quando tra coincidenze e presunti casi di corruzione mai definitivamente appurati, al Qatar vengono assegnati i Mondiali del 2022. Gli affari degli Al Thani sono proseguiti, poi, con la creazione della piattaforma multimediale BeIN Sports, oggi il principale intermediario per la cessione dei diritti televisivi delle competizioni europee nel mondo arabo, e l’acquisizione della squadra francese del Paris Saint-Germain nel 2011.
“Siamo di fronte al trionfo dello sportwashing”, afferma Noury, che con Amnesty ha più volte denunciato pubblicamente le azioni del Qatar. Definendolo come una “strategia di pubbliche relazioni che utilizza eventi sportivi per ‘sbiancare’ la propria immagine in temi di diritti umani”, lo sportwashing è efficace “perché da un lato entusiasma i tifosi, a cui non necessariamente è richiesta una sensibilità sui diritti, mentre dall’altro separa l’evento sportivo dal contesto che lo circonda”. Da questo punto di vista secondo Noury la strategia del Qatar è stata un trionfo per altri due motivi, che riguardano tutta la regione del Golfo e chi fa affari con i loro governi. “Perché si ripeterà nel tempo con i giochi asiatici invernali del 2029 in Arabia Saudita, dove si scierà su dune di sabbia ricoperte di neve artificiale. E poi perché è la politica che ha reso possibile tutto questo”. Dunque, evidenzia, “non bisogna stupirsi se in Italia si è ritenuto opportuno giocare le partite di Supercoppa di Lega in Arabia Saudita nello stesso periodo in cui il governo italiano inviava armi ai sauditi per fare la guerra in Yemen, uccidendo migliaia di civili, tra cui moltissimi bambini”.
Tenendo a mente i legami tra centri di potere e i principali mezzi di informazione in Italia, per Noury non sorprende neanche il fatto che di critiche ai Mondiali 2022 ce ne siane state poche. Gli fa eco Moggia, che aggiunge che “tutto ciò riflette il povero stato generale dell’informazione in Italia. Anche quando se n’è parlato, lo si è fatto male e soltanto riprendendo le inchieste fatte da testate internazionali.” Tra queste, spicca il lavoro dei giornalisti del Guardian, che oltre a rivelare gli oltre 6.500 morti tra i lavoratori migranti negli ultimi 10 anni, lo scorso marzo ha dato conto delle condizioni in cui lavorano e vivono gli addetti alla manutenzione degli stadi dei Mondiali. Turni di oltre 12 ore, a prescindere dalle alte temperature, impossibilità di assentarsi, e cabine di pochi metri quadri come abitazioni, in cui i lavoratori vivono in cinque o sei, senza possibilità di scelta perché di fatto “di proprietà” dei loro capi. Condizioni ben diverse dalle scintillanti strutture che ospiteranno calciatori e tifosi pronti a partecipare ai “migliori Mondiali della storia”, secondo il presidente della Fifa (Fédération internationale de football association, la federazione internazionale che governa il calcio), Gianni Infantino, atteso a pronunciarsi sulla richiesta di risarcimento da oltre 440 milioni di euro avanzata da Amnesty International ed altre Ong in favore delle famiglie dei lavoratori che han perso la vita per Qatar 2022. È il minimo che si possa fare per “la squadra che non scenderà in campo”, come la chiama Noury, riferendosi ai lavoratori provenienti per lo più da Asia del Sud, e senza i quali la competizione sportiva non sarebbe stata possibile. Nell’omonimo capitolo del suo libro, il portavoce di Amnesty elenca i nomi, la provenienza, e soprattutto le circostanze in cui i lavoratori hanno trovato la morte, quasi sempre ricondotte a “cause naturali” dalle autorità di Doha, mentre sui casi di suicidio non hanno nulla da dire. E sui quali non sembra abbiano considerato gli ultimi contatti che i lavoratori hanno avuto con i famigliari, riportando malessere dovuto all’impossibilità di ripagare i debiti contratti per emigrare.
È così che funziona la kafala, l’unico meccanismo tramite il quale un lavoratore migrante può arrivare nel Paese, pagando una quota ingente al suo kafeel (agenzia di impiego o datore di lavoro) che ha il diritto di confiscare il passaporto e decidere come e quando il lavoratore può cambiare impiego o ripartire. “Si tratta di un sistema di dominazione economica, legale e fisica diffuso in tutto il Medio Oriente”, spiega Noury, secondo cui “le diverse riforme avviate nel 2017 nell’ambito della cooperazione tra l’Organizzazione internazionale del lavoro e il Qatar rimangono insufficienti. Bisogna riconoscere che la situazione è ben diversa rispetto a 12 anni fa, se si pensa ad esempio che in Qatar è stato introdotto per legge il salario minimo, cosa che non abbiamo in Italia. Ma le riforme sono arrivate a tardi, a stadi già costruiti, hanno riguardato solo i siti ufficiali dei mondiali, ed escluso alcuni settori, come quello cruciale della sicurezza. Soprattutto, non hanno intaccato la natura della kafala che rimane tutto fuorché garanzia dei diritti delle persone”.
Attraverso le ricostruzioni dei due testi è evidente, dunque, che c’è e c’era molto di cui occuparsi. “È un’altra occasione persa”, concordano gli autori, che auspicano azioni dimostrative da parte di alcuni calciatori e tifosi durante il torneo. “Da qualche parte bisogna pur partire, e l’attenzione sui diritti rimarrà alta anche dopo la finale del 18 dicembre”, conclude Noury, che ricorda un recente sondaggio condotto da Amnesty International tra i tifosi in Europa, secondo cui il 73% degli intervistati sarebbe a favore della richiesta di risarcimento per i lavoratori migranti.
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