Diritti / Inchiesta
Moda: se il lusso rincorre le “regole” della fast fashion. Anche in Italia
Le relazioni commerciali tra marchi e fornitori in Europa sono volatili, rischiose e ineguali. E gli artigiani tessili, anche quelli che lavorano per la moda di lusso, vivono sfruttamento e assenza di contratti. Inchiesta sul made in Italy
Su uno scaffale stanno allineati maglioni di un unico marchio, tra i più importanti della moda made in Italy. Non siamo, però, in uno dei negozi monomarca che il brand ha aperto in tutta Italia. Dietro quello scaffale ci sono tavoli da taglio e macchine da cucire e per arrivare in questo laboratorio di confezioni abbiamo guidato per un’ora e mezzo, dopo aver lasciato l’autostrada, in direzione del Delta del Po. Nell’edificio lavorano una quindicina di artigiane, termine caro al titolare che seduto nel suo ufficio racconta: “Sono obbligato a non investire nei giovani e questo è un problema. Un apprendista nel settore artigiano è troppo costoso”.
Il problema non è l’assenza di incentivi pubblici, ma la relazione commerciale tra un terzista come lui e i marchi commerciali per cui lavora, fondata -anche per quelli più riconosciuti- su ordini che vengono trasmessi via email, senza alcuna garanzia. “Se un’azienda vuole che ci strutturiamo in un determinato modo, mi può assicurare l’ordine di un numero di capi a settimana di un certo tipo, per cui io posso inserire persone che devo formare, ma questa garanzia non può limitarsi a un orizzonte di sei mesi. Manca la possibilità di pianificare il lavoro”.
L’intervista anonima è una di quelle raccolte in Italia per la redazione del rapporto “Pratiche d’acquisto da fast fashion nell’Unione europea”, che indaga le relazioni commerciali tra marchi di moda e fornitori in Bulgaria, Romania, Croazia, Repubblica Ceca, Germania e appunto Italia. È stato presentato a metà aprile da Fair trade advocacy office e Clean clothes campaign, due reti di organizzazioni che promuovono i diritti umani e pratiche commerciali dignitose. Le interviste raccolte sono una trentina, tra dirigenti o proprietari di aziende manifatturiere di primo livello, dirigenti o ex-dirigenti di marchi, responsabili di associazioni di piccole e medie imprese, consulenti o revisori sociali, esperti, rappresentanti di iniziative multistakeholder e leader di sindacati attivi nel settore.
Il quadro che emerge, almeno nel nostro Paese, è chiaro: ormai le differenze tra le abitudini di acquisto dei discount e quelle dei marchi premium o di lusso sono minime o nulle; le relazioni commerciali tra marchi e fornitori in Europa e in Italia sono volatili, rischiose e ineguali. In inglese la sigla che descrive la situazione è Utp, unfair trade practices: sono quelle in cui un partner impone unilateralmente a un altro pratiche commerciali sleali e non etiche. L’assenza di un contratto è senz’altro una di queste. In generale, ciò che si misura girando l’Italia dei terzisti è il “lato B” del reshoring, un fenomeno salutato con grande interesse perché ha visto riportare in Italia produzioni (come confezionamento o assemblaggio di componenti) precedentemente esternalizzate o delocalizzate.
I brand pagano ai fornitori 30 centesimi di euro al minuto per il lavoro di cucito. Un prezzo che molti osservatori giudicano troppo basso perché non è sufficiente a coprire il costo lordo del lavoro
È un processo cresciuto durante l’emergenza legata al Covid-19, a causa della difficoltà nell’accesso alle materie prime sul mercato internazionale, che ha portato però con sé la diffusione di ordini veloci e di ridotte dimensioni, conferendo così ai marchi un’influenza ancora maggiore nella definizione di termini e condizioni. Come ci ha raccontato uno dei terzisti titolare di un’azienda specializzata in confezione, sartoria e finissaggio per le firme di alta gamma, i marchi hanno trovato più conveniente e sicuro tornare a far cucire in Italia. Questo si traduce, ad esempio, in una tendenza generale ad abbassare i prezzi, ad accorciare i tempi di consegna, ad aumentare i cambi d’ordine, ad allungare le scadenze di pagamento e a trasferire maggiormente alcuni costi “nascosti” ai produttori.
Indagare queste pratiche in Italia ha significato per gli autori del rapporto (tra cui chi firma questo articolo) muoversi -con estrema difficoltà, scontrandosi con molta reticenza e interviste negate- all’interno del settore tessile-abbigliamento-calzature (Tac) che conta più di 55mila imprese registrate e impiega 473mila addetti e dove sono presenti brand di lusso di livello mondiale. Un sistema che abbraccia l’intera filiera, comprese le parti ad alto valore aggiunto come la tessitura della lana di alta qualità. Anche in Italia le condizioni strutturali, come quelle descritte nell’intervista in apertura, rendono difficile evitare lo sfruttamento di manodopera meno qualificata e immigrata, in un sistema caratterizzato da subappalti, impiego irregolare e violazioni dei diritti del lavoro. L’elemento discriminante più forte è l’assenza di contratti scritti.
Oppure, quando esistono, sono completamente sbilanciati sulla protezione del marchio. A queste condizioni, per i produttori negoziare con i brand è una “causa persa” su tutti fronti. Un altro fornitore italiano ha spiegato che “i contratti proposti non prevedono mai un impegno sulle quantità da produrre e nemmeno un impegno sui prezzi. I ‘contratti’ per i marchi consistono nel dire che il fornitore deve rispettare qualità e tempi di consegna, perché se non lo fa scattano le penali. Non vengono mai inserite clausole di salvaguardia ‘a tutela degli interessi del fornitore’”. Un dirigente di un altro produttore italiano parlando di un altro terzista ha raccontato una storia simile: “Facevano 10mila pantaloni all’anno e non gli hanno più dato nulla”. Era cambiato un referente nell’ufficio acquisti.
Le imprese attive in Italia nel settore tessile, abbigliamento e calzature sono circa 55mila. Impiegano complessivamente circa 473mila lavoratrici e lavoratori
La definizione dei prezzi è un aspetto fondamentale nel contesto delle pratiche commerciali sleali. Secondo i vari intervistati, compresi i responsabili acquisti dei brand, i prezzi sono proposti dagli stessi a partire da una chiara idea di quelli finali da applicare al pubblico. I costi della manodopera per il cucito al minuto possono variare notevolmente: alcuni fornitori riportano cifre attorno ai 0,30/0,40 euro, a seconda della struttura dei costi e delle specifiche di qualità.
Un fornitore italiano critica questo approccio osservando che il calcolo dei prezzi-minuto di cucitura “dovrebbe tenere conto di tutti quei costi ‘ombra’ che non sono direttamente correlati ai tempi di evasione degli ordini, ad esempio quelli per le misure di sicurezza”. L’insieme di questi fattori porta in alcuni casi a forme di auto sfruttamento: l’artigiano altamente specializzato è rimasto da solo nel suo laboratorio, non potendo assumere né formare nuova manodopera.
Un rapporto presentato a febbraio 2023 e redatto per conto di Cna-Federmoda Toscana da Gaetano Aiello, docente di Economia e gestione delle imprese all’Università di Firenze, propone di passare a considerare un prezzo al minuto che, oltre alla copertura dei costi diretti e indiretti, consenta di coprire anche quelli extra, derivanti da specifiche situazioni di mercato, e un utile obiettivo, necessario non solo alla remunerazione del rischio e del capitale investito ma soprattutto all’autofinanziamento di investimenti necessari ad affrontare l’evoluzione sostenibile e digitale della filiera.
Il costo-minuto può aiutare a capire se un terzista impiega manodopera non regolare. È infatti possibile calcolare le ore totali lavorate in un mese dividendo il fatturato dell’azienda per un costo del lavoro standard per minuto di cucitura, calcolato sulla base del salario minimo previsto dai contratti nazionali. “Di solito prendevo il fatturato dell’azienda che stavo controllando, lo dividevo per 0,30 e questo mi dava le ore lavorate nel mese. Se il numero totale era di tremila e c’erano solo dieci lavoratori, il fatturato poteva essere raggiunto solo da straordinari eccessivi o da subappalti non dichiarati”. Un altro intervistato ha inoltre sottolineato che il costo standard del lavoro per minuto per la cucitura (0,30-0,40 euro) è troppo basso, in quanto paga ai fornitori solo 18 euro all’ora, importo non sufficiente a coprire i costi lordi del lavoro del datore di lavoro, compresi i contributi sociali e le tasse, che ammontano ad almeno 24 euro.
Altro elemento critico del reshoring è la richiesta dei brand di fornire una produzione rapida di piccole quantità di prodotti e tessuti di alta qualità. I marchi spesso acquistano direttamente dai fornitori, riducendo il ruolo degli intermediari e facilitando la comunicazione. Questi ultimi si vedono quindi costretti ad accettare più ordini per mantenere un flusso di lavoro costante. Come spiega un revisore sociale italiano a proposito del mercato del lusso, questo “si è sempre più trasformato in fast fashion: si è andati verso una maggiore frammentazione degli ordini con minori tempi di consegna. Dalla progettazione alla consegna del prodotto finito [c’è] pochissimo tempo perché la competizione tra i marchi del lusso si gioca sulla capacità di arrivare al negozio il più velocemente possibile, un’urgenza che porta a stressare la catena di fornitura”.
Il manager che all’inizio dell’articolo ci ha raccontato la sua esperienza in merito a questo aspetto sottolinea come “in Italia, i marchi tengono la produzione che non riescono a gestire all’esterno, fanno ordini all’ultimo minuto, e in piccole quantità che non riescono a gestire all’estero”. L’esigenza di consegnare in tempi certi diventa un problema quando “l’approvvigionamento delle materie prime è volatile, non c’è più una filiera stabile e non si sa esattamente quando arriva la merce”, com’è successo a partire dall’emergenza Covid-19.
L’ultima pratica commerciale sleale denunciata in Italia è legata alla dilazione dei termini di pagamento, a cui si accompagnano pratiche di reverse factoring con il supporto della banca del marchio. Ciò consente ai fornitori di avanzare richieste di liquidità in caso di lunghi termini di pagamento, ma significa anche che questi si fanno carico degli oneri finanziari e paga gli interessi per accedere alle linee di credito, oppure che accetta un importo di fatturazione inferiore per compensare la banca.
Il quadro normativo esistente non sembra all’altezza del compito, né in Italia né in Europa. Per questo, secondo Fair trade advocacy office e Clean clothes campaign la Commissione europea dovrebbe proporre una direttiva che vieti il ricorso a pratiche commerciali sleali nel settore tessile e dell’abbigliamento. Una proposta che dovrebbe ispirarsi alla direttiva del 2019 che regola i rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare, vietando i ritardi di pagamento, le modifiche agli ordini, le cancellazioni, i prezzi inferiori ai costi di produzione e le aste utilizzate da marchi che operano come retail in Italia anche se non producono nel nostro Paese, come Aldi e Lidl.
BASTA #GREENWASHING, ADIDAS È ORA DI PAGARE!
Lo scorso 23 marzo alcuni sindacalisti e attivisti di PayYourWorkers, coalizione globale di oltre duecento organizzazioni sindacali e della società civile, hanno interrotto una colazione di affari di Adidas a Portland (Stati Uniti) cui partecipavano Rupert Campbell, presidente di Adidas Us, e alcuni tra i top manager del gruppo a livello globale. Portland è una città sindacalizzata, hanno spiegato gli attivisti, e non gradisce pratiche di furto salariale a danno dei lavoratori.
Il riferimento è a quanto avvenuto durante l’emergenza Covid-19 nelle filiere globali del tessile quando, a causa dei vari lockdown e di una ripresa diseguale, milioni di lavoratrici nel mondo hanno visto i propri salari tagliati oppure sono rimaste senza alcuna indennità nei casi di licenziamento collettivo e chiusura delle fabbriche. Come le operaie della Hulu garments in Cambogia, truffate e costrette a dimettersi all’inizio della pandemia, che dal 2020 aspettano 3,6 milioni di dollari di liquidazione.
Non si tratta di un caso isolato nella catena di fornitura di Adidas. Sia chiaro, non si tratta dell’unico marchio che si nasconde dietro il proprio marketing: l’industria della moda è basata sullo sfruttamento delle donne. Ma la strategia di comunicazione falsamente inclusiva, di Adidas, pseudo-femminista e anti-razzista, espone il marchio a un maggiore scrutinio pubblico. Per questo, il prossimo 11 maggio gli attivisti di PayYourWorkers torneranno a fare sentire la voce inascoltata delle lavoratrici povere che fanno la ricchezza del gigante tedesco, questa volta durante l’assemblea degli azionisti.
Per seguire e agire: abitipuliti.org, adidassteals.com e #PayYourWorkers.
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