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L’impegno del commercio equo per una moda giusta

© Pay your workers

Perché è necessario sostenere la campagna #PayYourWorkers per chiedere ai marchi della fast fashion di risarcire lavoratrici e lavoratori. La rubrica a cura di “Equo Garantito”

Tratto da Altreconomia 252 — Ottobre 2022

Segnatevi queste date: dal 24 al 30 ottobre tutte e tutti pronti a mobilitarsi e chiedere a gran voce: #PayYourWorkers. “In due anni di crisi causata dal Covid-19, le lavoratrici tessili nel mondo si sono ulteriormente impoverite e nessuna misura efficace è stata attuata per colmare l’enorme divario salariale che ha gettato nella miseria milioni di persone rimaste senza lavoro o con salari decurtati”, spiega Deborah Lucchetti, della campagna Abiti puliti, che Equo Garantito sostiene. “Per questo a fine ottobre la campagna #PayYourWorkers si mobiliterà in tutto il mondo -aggiunge- chiedendo ai brand della moda di intervenire e restituire quanto dovuto attraverso un fondo globale negoziato con i sindacati”.

In Italia sono previste iniziative in diverse città, tutti gli aggiornamenti saranno pubblicati su abitipuliti.org. Dall’inizio della pandemia, i grandi brand della moda hanno diluito i pagamenti ai loro fornitori e hanno rinegoziato al ribasso i prezzi di acquisto, causando miseria e indebitamento di milioni di persone. A livello globale, la Clean clothes campaign stima che i lavoratori del settore tessile abbiano perso più di 11 miliardi di dollari in salari non pagati, licenziamenti improvvisi e assenza di ammortizzatori sociali, solo nel primo anno dalla diffusione del Covid-19.

Oltre 35 milioni di persone nel mondo producono i capi che indossiamo, ricevendo stipendi tra i più bassi del mondo. È per questo che è nata #PayYourWorkers: decine di organizzazioni, tra cui Abiti puliti ed Equo Garantito, si sono attivate per chiedere alle imprese della moda di saldare i loro debiti e che situazioni del genere non si verifichino più. Serve un fondo globale, istituito con un accordo vincolante, a sostegno dei lavoratori e delle lavoratrici in caso di crisi aziendali nei paesi di produzione.

L’impegno collettivo deve essere supportato da quello individuale. A partire da una corretta conoscenza del fenomeno: dall’analisi di dati Ocse relativi al periodo 2000-2020 riportati nel recente rapporto “Il salario dignitoso è un diritto universale” (pubblicato a giugno 2022 da Abiti puliti e di cui Altreconomia ha scritto sul numero di luglio/agosto) emerge come le retribuzioni abbiano subito una contrazione in termini reali, aggravata dalla dinamica inflattiva dell’ultimo periodo. Ragionare sui salari e sulla povertà lavorativa è un primo passo: serve riflettere su più fattori (individuali, familiari, istituzionali), sulle catene globali del valore e sul tema delle diseguaglianze.

Anche attivarsi con un semplice gesto può contribuire a cambiare le cose: “Good clothes, fair pay” è la recentissima iniziativa europea che chiede una legislazione sui salari di sussistenza nel settore dell’abbigliamento, del tessile e delle calzature. Servono un milione di firme di cittadine e cittadini dell’Unione europea per sollecitare una legislazione che imponga alle aziende di condurre una dovuta diligenza sul salario di sussistenza nelle catene di approvvigionamento.

Basterebbero appena dieci centesimi su ogni capo per permettere di avere la garanzia che chi lavora nella produzione tessile abbia reddito sufficiente per sopravvivere alla pandemia e rafforzare gli ammortizzatori sociali nei Paesi di produzione. Basterebbe non voltarsi dall’altra parte, dal momento che l’impatto devastante della fast fashion in termini sociali e ambientali non è più un mistero. Basterebbe comprare meno e scegliere le alternative sostenibili, come quelle offerte dal commercio equo e solidale.

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