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Diritti / Approfondimento

Superare la logica del “minimo”. Proposta per un salario dignitoso

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In Italia gli stipendi non si sono adeguati al costo della vita e le diseguaglianze sono aumentate. La retribuzione minima oraria è un primo passo ma serve
un cambiamento culturale: le persone devono tornare al centro, non i profitti

Tratto da Altreconomia 250 — Luglio/Agosto 2022

“Vogliamo il pane ma anche le rose. Ciò che la donna vuole è il diritto di vivere, non semplicemente di esistere”. Così Rose Schneiderman il 12 maggio 1912 rivendicava i propri diritti come operaia di una fabbrica tessile di Lawrence, Massachusetts, sottolineando la necessità di un approccio al lavoro non guidato da mere logiche di mercato ma ispirato alla valorizzazione e al rispetto della dignità umana. Lo scorso 7 giugno le istituzioni europee hanno raggiunto un accordo politico sul contenuto della Direttiva relativa alla previsione di salari minimi adeguati nell’Unione: in attesa del voto del Parlamento e del Consiglio europeo, l’intesa può rappresentare un’occasione per ripensare l’attuale mondo del lavoro. Proprio per tornare a una tutela dei lavoratori capace di garantire “sia il pane sia le rose” la campagna Abiti puliti, sezione italiana della rete internazionale Clean clothes campaign che riunisce organizzazioni a difesa dei diritti dei lavoratori nel settore tessile, ha lanciato una proposta che punta ad “andare oltre” al tema del salario minimo legale. 

“È importante tornare a parlare di salario dignitoso che è un diritto umano e universale -racconta Deborah Lucchetti di Abiti puliti-. Auspichiamo l’adozione di un minimo legale ma questo deve essere in linea con il costo della vita perché possa essere uno strumento efficace di protezione dei lavoratori più vulnerabili e di rafforzamento della contrattazione collettiva. Serve un cambiamento culturale”. Proprio l’accordo sulla Direttiva, presentata il 28 ottobre 2020, prevede l’adozione di misure per incrementare le retribuzioni tenendo conto delle specificità nazionali ma senza l’introduzione di un meccanismo di determinazione comune. 

Il salario minimo legale è già in vigore in 21 Paesi dell’Ue mentre in altri, tra cui l’Italia, le retribuzioni sono determinate da contratti collettivi settoriali o aziendali. A pochi giorni dall’adozione della misura, come detto, Abiti puliti ha presentato lo studio “Il salario dignitoso è un diritto universale. Una proposta per l’Italia, a partire dal settore della moda” che individua, attraverso un procedimento scientifico, il quantum mensile necessario per coprire le spese per il cibo, il vestiario, i trasporti, l’alloggio, le utenze domestiche, l’istruzione, la cultura e il tempo libero, le spese mediche ordinarie e una settimana di vacanza all’anno. È questo il “vero minimo”, individuato dai ricercatori, che va oltre un concetto di mera sussistenza stabilito secondo logiche di mercato. 

“La nostra stessa Costituzione, all’articolo 36, parla di retribuzione ‘in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa’ -continua Lucchetti-. Questo significa molto di più del soddisfare esclusivamente le necessità primarie”.

“In Italia ci sono gigantesche fasce di lavoro irregolare, nero, grigio, in subappalto ed è così anche nel caso in cui ci sia delocalizzazione in Paesi terzi” – Deborah Lucchetti

I curatori del rapporto, grazie all’esperienza maturata sul campo nel corso degli anni, hanno deciso di partire dal settore “Tessile, abbigliamento e calzature” (Tac), significativo per la dimensione transnazionale delle catene di fornitura -che comportano alto rischio per la violazione dei diritti delle lavoratrici- e per la diffusione di un modello di “capitalismo estrattivo” sempre più diffuso. Nel cosiddetto Made in Italy, si legge nel report, si cela infatti un “meccanismo che esibisce solo le parti ‘nobili’ della filiera (artigiani, pellettieri, sarti, designer), mentre occulta le fasi dove si addensa la manodopera meno qualificata e spesso migrante dove sono più diffusi gli abusi”.

“Il primo livello di produzione dei grandi marchi vede il rispetto dei contratti collettivi grazie alla maggior densità sindacale -spiega Lucchetti-. In Italia però ci sono gigantesche fasce di lavoro irregolare, nero, grigio, in subappalto ed è così anche nel caso in cui ci sia delocalizzazione in Paesi terzi. È un settore ammantato da una retorica di bellezza e sostenibilità che nasconde grandi problematicità”. 

Il tema salariale si lega indissolubilmente alla filiera produttiva e ai suoi impatti. I capi prodotti a livello mondiale sono passati da 50 a 100 miliardi all’anno dal 2000 al 2015 mentre il loro utilizzo è crollato. “L’indice medio di utilizzo è diminuito del 36% in 15 anni, in Cina addirittura del 70% -si legge ancora nello studio-. Questo significa che ogni anno vanno in fumo circa 460 miliardi di dollari in prodotti che potrebbero continuare a essere utilizzati e che, nei casi più estremi, vengono indossati al massimo dieci volte”. La conseguenza è la produzione di 92 milioni di tonnellate di rifiuti all’anno a cui si aggiunge anche uno scarso riciclo. 

Il ministro del Lavoro, Andrea Orlando © governo.it/ Filippo Attili

Nel nostro Paese vengono raccolte circa 150mila tonnellate di rifiuti da abiti usati (2,5 chilogrammi per abitante) di cui meno del 10% viene avviato al riutilizzo. Anche il tema ambientale, quindi, assume un ruolo di primo piano. Entro il 2050 si stima la produzione di 160 milioni di tonnellate di capi, il che comporterebbe “un consumo di risorse fossili non rinnovabili pari a 300 milioni di tonnellate, all’immissione negli oceani di ulteriori 22 milioni tonnellate di microplastiche, al 26% delle emissioni globali di CO2”. Proprio il diffondersi di un business globalizzato trainato dalla fast fashion ha prodotto “una immensa pressione sulle lunghe catene di fornitura per produrre sempre di più, in meno tempo e al minor prezzo, pena l’esclusione dal mercato”. 

A farne le spese sono proprio i salari. Ecco perché la proposta avanzata da Abiti puliti si concentra su un salario dignitoso basato su tre indicatori. Il nucleo familiare medio è composto da tre unità di consumo nonostante, secondo l’Istat, il numero medio dei componenti della famiglia su base nazionale sia di 2,3. “Soprattutto nelle famiglie vulnerabili potrebbero esserci più figli a carico, debiti pregressi, nel caso della popolazione straniera le rimesse da inviare a casa: il calcolo dell’Istat rischiava di essere troppo risicato”, spiega Lucchetti. Il secondo elemento preso in considerazione è il costo del paniere alimentare necessario per il fabbisogno energetico di un lavoratore (2.453,5 kcal) ipotizzato basandosi su una dieta sana ed equilibrata, senza quindi prendere in considerazione la possibilità di consumo del cosiddetto “cibo spazzatura”. Partendo da questo indicatore si è stimato che il costo dell’acquisto dei generi alimentari rappresentasse mediamente il 30% della spesa complessiva di una famiglia in cui il percettore di reddito fosse occupato nel settore tessile. Anche in questo caso si è scelta una quota più alta rispetto a quanto stimato dall’Istat (20,1%) perché, riprendendo la cosiddetta legge di Engel, la “proporzione del reddito che una famiglia destina all’alimentazione diminuisce quando il reddito aumenta”. Sulla base di queste tre ipotesi viene individuato un salario dignitoso di base familiare pari a 1.905 euro netti mensili per quaranta ore di lavoro settimanale a 11 euro netti l’ora. “In un contesto in cui i cosiddetti contratti pirata siglati da sindacati di comodo portano a un taglio anche del 20-25% sul salario -commenta Lucchetti- una retribuzione dignitosa potrebbe riequilibrare le catene di fornitura in ottica redistributiva e anche favorire la riduzione degli impatti ambientali”. 

A fine 2021 al Cnel risultano depositati 933 contratti collettivi per il settore privato. La proliferazione di contratti “pirata” indebolisce le tutele

Il settore della moda fa così da angolo prospettico per analizzare lo stato dell’arte del tema salariale in Italia. I dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) descrivono una situazione impietosa: nonostante dal 2000 al 2020 le retribuzioni medie annue siano aumentate del 32%, passando da 21.529 a 27.997 euro, il potere d’acquisto dei lavoratori è diminuito nello stesso periodo di tempo del 3,6%. L’Italia è il fanalino di coda dei Paesi dell’eurozona: in Germania si registra infatti un aumento del 17,1%, in Francia del 17,5%, in Lussemburgo del 15,5%. Solamente la Grecia e la Spagna registrano una contrazione (rispettivamente dell’1,1% e dello 0,2%) comunque minore rispetto a quella italiana. Questi dati, destinati a peggiorare nel biennio 2021-2022 per la dinamica inflattiva seguita all’aggressione russa in Ucraina, soprattutto legata a beni energetici -in misura minore anche sui beni alimentari-, vanno correlati all’aumento del cosiddetto rischio di “povertà lavorativa” che ha registrato un incremento del 3% tra il 2000 e il 2019. Secondo i dati Eurostat proprio nel 2019 in Italia tale rischio colpiva l’11,8% dei lavoratori di età compresa tra i 18 e i 64 anni ovvero 2,8% in più rispetto alla media dell’Unione europea. Non solo: secondo recenti dati Istat nel 2021 in Italia più di 1,9 milioni di famiglie e circa 5,6 milioni di individui vivono in condizione di povertà assoluta, un indice che misura in termini percentuali quanto la spesa mensile delle famiglie povere sia in media al di sotto della linea di povertà. È anche, soprattutto, un problema di diseguaglianza.

Che cosa s’intende con “lavoratore povero”. È colui che nel corso di un anno ha lavorato almeno sette mesi e vive in una famiglia in cui la somma dei redditi del nucleo famigliare (al netto dell’Irpef, senza prima casa) incrementato del 20% del valore del patrimonio è inferiore alla soglia di povertà lavorativa (60% della mediana dello stesso reddito a livello nazionale)

Nonostante questi freddi ma significativi dati le iniziative di legge sul salario minimo legale sono al palo. In Italia la proposta a prima firma della senatrice Nunzia Catalfo, già ministra del Lavoro e delle politiche sociali in quota M5s dal settembre 2019 al febbraio 2021, prosegue al rallentatore. I detrattori dell’adozione di questa misura giustificano la loro posizione sottolineando come la proposta di un minimo di nove euro l’ora indebolirebbe la contrattazione collettiva. “Non è così -osserva l’avvocato Piergiovanni Alleva-. È chiaro che estendere la contrattazione collettiva erga omnes sarebbe più efficace ma è altrettanto necessario sottolineare come i ‘nove euro’ servirebbero come ruota di scorta, come tutela per il livello più basso che spesso non è raggiunto dagli stessi accordi dei sindacati più rappresentativi. Alcuni hanno la coda di paglia perché sanno che in certi settori quali il turismo, la logistica e altri la contrattazione è addirittura in deroga rispetto a questo minimo”. Secondo quanto ricostruito dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) nel Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva pubblicato a fine 2021 nell’archivio Cnel sono depositati ben 933 contratti collettivi per i lavoratori del settore privato, 77 in più rispetto al 2020. La proliferazione di contratti cosiddetti “pirata” indebolisce la tutela del lavoratore. “Non solo -continua Alleva-. Se si adottasse un salario minimo legale non sarebbe necessario l’intervento del giudice perché diventerebbe possibile procedere per via amministrativa, tramite ad esempio l’Ispettorato del lavoro, perché ci sarebbe un parametro già identificato. Attualmente invece è tramite la via giudiziale che si stabilisce l’adeguato compenso rifacendosi all’articolo 36 della Costituzione: un meccanismo meno appetibile per il lavoratore. Questo fa paura a molti”.

Anche per Lucchetti “una soglia minima è necessaria” visto il contesto e l’asimmetria di potere nelle catene globali di fornitura “che ormai da anni costituisce un serio problema per i rapporti di forza tra capitale e lavoro e favorisce il drenaggio di risorse, anche pubbliche, verso le parti alte della filiera governate dagli azionisti e dai grandi gruppi multinazionali”. Ma la proposta del salario dignitoso va appunto oltre. Il report sottolinea come l’obiettivo di 1.905 euro netti al mese non sia pensato come salario imposto normativamente. “La nostra è una proposta di un nuovo patto sociale, che metta al centro il mondo del lavoro con un deciso ruolo regolatore dello Stato finalizzato alla giustizia sociale, e identifichiamo gli step necessari per raggiungerlo -conclude Lucchetti-. Auspichiamo una sperimentazione per capire cosa significa avere un salario al passo con il costo della vita con un obiettivo più ampio: partire dal settore tessile per poi estendere il ragionamento a tutti i settori”. 

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