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Diritti / Intervista

Michele Colucci. Uno sguardo “profondo” sulle migrazioni

© Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild)

A cinquant’anni dal primo respingimento dell’Italia in mare, la risposta delle istituzioni conferma miopia e propaganda “muscolare”: dalle sanatorie alle misure emergenziali. Intervista al ricercatore autore de “La storia dell’immigrazione straniera in Italia”, dove sono tratteggiate le evoluzioni della presenza di persone straniere nel nostro Paese

Nell’agosto del 1972 sessanta persone di origine tunisina in procinto di approdare sulle coste siciliane vennero ricollocate sull’imbarcazione e respinte per “indigenza” sulla base di una decisione della prefettura di Trapani che dal giorno alla notte stabilì che chi approdava sulle coste doveva avere 100mila lire a disposizione. Una risposta muscolare delle istituzioni assunta anche a seguito delle pressioni delle organizzazioni sindacali che lamentavano l’elevata presenza di manodopera a basso costo connessa agli arrivi di migranti. Cinquant’anni dopo quei fatti, rileggendo la ricostruzione della vicenda scritta da Michele Colucci all’interno de “La storia dell’immigrazione straniera in Italia” (Carocci editore, 2018), sembra di vivere un déjà vu. “Oggi come allora respingere le persone non significa bloccare i flussi. Si dichiara ‘guerra’ alla clandestinità quando nella realtà si combattono le migrazioni regolari, costringendo le persone a seguire vie ‘illegali’ e poi inserirsi nei circuiti irregolari”, spiega il ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche – Istituto di studi sul Mediterraneo, che ha scritto numerosi saggi sulla storia delle migrazioni, del lavoro e delle politiche sociali.

Colucci, tenendo a mente quello che accadde nel 1972, sarebbe una stortura dire che le risposte delle istituzioni non sono cambiate in cinquant’anni?
MC Possiamo dire che c’è una postura generale delle istituzioni che trova continuità, con risposte che poi evidentemente cambiano di volta in volta: oggi c’è un investimento istituzionale sull’immigrazione molto più ampio rispetto all’epoca quando il tema era sotto traccia. La postura è invece comune perché alla base c’è una specie di pregiudizio verso la mobilità in generale: l’immigrazione è associata a qualcosa che non ha una valenza strutturale ma che è destinata a fermarsi, come se fosse una continua parentesi e che quindi può essere affrontata attraverso strumenti emergenziali e con uno sguardo ipocrita. Quello che succedeva nel 1972 infatti era una finta forma di respingimento. Le persone, anche se era impedito loro di viaggiare legalmente, arrivavano comunque sul territorio italiano inserendosi poi nei circuiti del lavoro nero che facevano molto comodo all’economia. Niente di diverso da quello che accade oggi. In questo senso la “guerra alla clandestinità” è una guerra alla migrazione ordinaria. 

Per raccontare la “continuità” di questo atteggiamento delle istituzioni nel libro risale all’epoca fascista. La mobilità delle persone era già un problema allora?
MC Sì. Il fascismo dal punto di vista delle migrazioni interne costituisce un doppio livello di politica: pianifica interventi favorevoli alla mobilità, con spostamenti di interi gruppi su basi quasi ‘militari’, solo quando prevede la costruzione di grandi opere nel Paese; contemporaneamente invece cerca di scongiurare gli spostamenti individuali. Perché è terrorizzato dal contagio di possibili idee antifasciste nei contesti urbani e perché la città fa paura al regime, che difende un’idea immobile di società rurale. Seguendo questo approccio nel 1939 vengono varate le leggi anti-urbanesimo. Chi vuole cambiare il Comune di residenza può farlo solo se dimostra di avere un contratto di lavoro: una trappola drammatica per chi si sposta perché non ha un impiego. Questa legge viene abolita solo nel 1961: negli anni Cinquanta abbiamo centinaia di migliaia di persone che si spostano clandestinamente e restano nell’irregolarità perché non avendo una residenza non possono avere un contratto di lavoro regolare. 

A proposito di lavoro regolare. Nel 2002 la legge Bossi-Fini sancisce il collegamento tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno, la legge più restrittiva mai adottata in Italia sul tema delle migrazioni. In quegli anni però si passa da 400mila stranieri residenti del 1991 ai quattro milioni del 2008. Come si tengono insieme questi aspetti?
MC Lo stesso governo che vara quella legge adotta poi una sanatoria per regolarizzare 634mila persone in un colpo solo. Forse il 2002 è simbolicamente il momento più rilevante su questo aspetto: di fronte a una realtà in cui l’immigrazione è presente anche l’orizzonte più restrittivo, reazionario, conservatore non può che prendere atto di questo fenomeno.

Restiamo sul tema delle “sanatorie”. Nel libro insiste su questo strumento come “cartina al tornasole” della risposta italiana al tema delle migrazioni. Perché?
MC Perché far “emergere” delle persone già presenti sul territorio è uno strumento emergenziale. Ma se guardiamo quanto successo in passato sappiamo che così non è avvenuto. Le sanatorie si sono susseguite dopo ogni “ritocco” delle leggi sull’immigrazione dalla Foschi (1986) e Martelli (1990) alla Turco-Napolitano (1998) fino appunto alla Bossi-Fini (2002). Questo significa che le istituzioni decidono di non individuare un canale ordinario e costante di inserimento delle persone nel tessuto sociale, perché in presenza di una politica attiva di organizzazione dei flussi le emersioni sarebbero inutili. Addirittura negli ultimi anni non vengono fatte neanche più le sanatorie. Quella del 2020 era misurata per settori molto specifici del mercato del lavoro e tra l’altro è stata nuovamente gestita con una enorme mancanza di organizzazione e di rispetto delle persone. Molte di quelle domande aspettano ancora una risposta. Ecco: un altro tema ricorrente è l’inefficienza nella risposta da parte della macchina burocratica su questi temi.

“Il mondo dell’immigrazione è molto più dinamico di quello che ci immaginiamo. Spesso siamo fermi all’immagine dello sbarco, del barcone”

Individua nel 2011 un “punto di non ritorno” per le migrazioni in Italia. Perché?
MC In quel momento l’Europa ma soprattutto l’Italia vive direttamente gli impatti di due fenomeni globali: la crisi economica internazionale del 2008, arrivata sul territorio europeo negli anni seguenti e le primavere arabe. Il primo fenomeno ha messo in crisi la mobilità legata al lavoro: l’Europa ha scelto una linea di chiusura e di rigidità e di grande ostilità all’immigrazione per lavoro per andare incontro agli appetiti degli elettorati. Si registra quindi una grande difficoltà, dopo la crisi, a rendere pienamente ‘fruibile’ quel ciclo migratorio che fino a quel momento era stato il canale più importante di movimento verso l’Europa. E poi la cosiddetta crisi dei profughi. In assenza di altri canali legali, il diritto d’asilo aumenta la sua importanza. E anche su questo tema torna l’incapacità politica nel gestire in modo ordinato questo fenomeno a fronte di numeri che non sono particolarmente alti se confrontati a quanto succedeva fino a pochi anni prima. 

In che senso?
MC Fino al 2011 in Italia si rilasciano circa 600mila permessi di soggiorno all’anno a cittadini extracomunitari, negli anni della “crisi migratoria” il numero scende a circa 200-300mila: quasi un terzo in meno. In generale, quindi, negli ultimi dieci anni i flussi migratori verso l’Europa e l’Italia, nonostante un dibattito impazzito, presentano cifre estremamente più basse rispetto al passato. Ci sono nuovi poli attrattivi: i Paesi africani che intercettano i flussi, le migrazioni dall’Asia verso Indonesia e Australia. Bisogna quindi misurarsi con questa complessità che invece è schiacciata nel dibattito politico dall’idea di una pressione migratoria ingestibile. Sono passaggi che la Storia ci aiuta a capire con uno sguardo più laico e razionale.

Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai nostri giorni, Michele Colucci, Carocci editore (2018)

Per questo motivo ha scelto di scrivere un libro “storico” sul tema dell’immigrazione?
MC Per due motivi. Il primo era quello di dare un respiro storico a un tema su cui nel nostro Paese nel dibattito pubblico si riparte regolarmente da zero, un atteggiamento inaccettabile a fronte di più di cinque milioni di persone straniere residenti. Ma soprattutto volevo ricomporre una frattura che nel dibattito pubblico e scientifico è molto polarizzata, negli ultimi anni, che è quella del cosiddetto “noi e loro”. Intrecciare la storia d’Italia più recente con l’immigrazione ci fa capire che questa barriera è finta. Dall’assemblea costituente alla decolonizzazione, passando per la crisi degli anni Settanta al 1989 e così via: in ogni grande tappa della storia italiana il tema dell’’immigrazione che non è marginale ma fondativo.

E oggi che cosa succede? Se dovesse aggiungere un capitolo al libro su quanto successo negli ultimi quattro anni?
MC Rispetto ai flussi si conferma la stabilizzazione: la fase della parabola ascendente della migrazione è finita e siamo in un momento di stabilizzazione. Ma la politica continua a intervenire con strumenti emergenziali, si interviene con decreti legge, con misure che incidono su temi come la “sicurezza”. E poi ignora il protagonismo politico degli “stranieri”. Pensiamo il tema su ius sanguinis e ius soli che nasce in Italia grazie ai ragazzi e alle ragazze di seconda generazione che si sono organizzati e strutturati decidendo di fare delle battaglie politiche. Questo è un grande valore aggiunto a quello che succede nel nostro Paese. Infine, un ultimo tema molto interessante poco studiato rispetto agli ultimi quattro anni è l’emigrazione degli immigrati. Se prendiamo i dati su chi lascia l’Italia, si sa che il 30% è composto o da cittadini stranieri, o “nuovi” cittadini italiani, o loro figli. Questo è interessante perché i movimenti migratori si mischiano molto di più rispetto al passato. A Londra, a Parigi e Berlino ci sono cittadini italiani che sono in realtà provenienti da vecchie esperienze di migrazione in Italia: parlano italiano ma sono originari del Pakistan, dal Bangladesh e così via. Un elemento che aggiunge ulteriore complessità.

“Vittime o carnefici? Un nuovo protagonismo”. Intitola così uno degli ultimi capitoli del volume. Perché?
MC Volevo raccontare quello cui accennavo prima: non esiste più la possibilità di parlare di noi e loro perché ormai un pezzo importante degli immigrati che sono in Italia si presenta nello scenario pubblico non più come immigrati ma come datori di lavoro, lavoratori e lavoratrici, artisti, scrittori e scrittrici, giornalisti. Un mondo molto più dinamico di quello che ci immaginiamo. Spesso siamo fermi all’immagine dello sbarco, del barcone. Che restituisce solo un pezzo molto piccolo della realtà dell’immigrazione in Italia. Questo è interessante: in autunno si sono riviste le movimentazioni studentesche ed era molto evidente come una parte di studenti che lottano per il diritto alla scuola pubblica appartiene al mondo delle nuove generazioni. Come questo, ci sono tanti altri esempi. 

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