Ambiente / Approfondimento
L’universo delle bioplastiche: la sfida del riciclo e dell’usa-e-getta
Trainata dagli shopper, in Italia la produzione di plastiche a base biologica è cresciuta del 125 per cento dal 2012 al 2018. Un nuovo mercato che richiede adeguati strumenti di smaltimento. E -comunque- politiche per ridurre i consumi
Come riconoscere di che materiale è fatto il bicchiere usa-e-getta che teniamo tra le mani? I (piccoli) codici impressi sul fondo ci danno qualche indizio: possiamo individuare il disegno di un triangolo con dentro una sigla; la scritta PLA (l’acido polilattico) o “compostabile”; talvolta “biodegradabile” e in certi casi alcuna indicazione. È un alfabeto sempre più complesso da decifrare, soprattutto in questo momento di grande diffusione delle bioplastiche, quei materiali che European Bioplastics -l’associazione con sede a Berlino che rappresenta gli interessi dell’industria in Europa, european-bioplastics.org)- definisce a base biologica (in inglese, biobased, cioè derivati in parte o del tutto da biomassa, come il mais, la cellulosa o le alghe) o biodegradabili -in determinate condizioni di temperatura e umidità-, o che possiedono entrambe queste caratteristiche.
In Italia sono state 88.500 le tonnellate di manufatti in bioplastica prodotte nel 2018 (il 21% in più dal 2017), con un fatturato di 685 milioni di euro, per 252 aziende (143 nel 2012) che impiegano 2.550 addetti (raddoppiati negli ultimi sei anni). “Nel complesso il comparto ha aumentato il proprio valore di oltre l’85% rispetto ai primi anni di attività (è del 2011 l’entrata in vigore dell’obbligo di sacchetti biodegradabili al posto di quelli in polietilene, ndr), nonostante la progressiva decrescita dei prezzi di vendita”, dice Assobioplastiche, l’associazione italiana che dal 2011 riunisce 50 imprese tra produttori, trasformatori e distributori di questi prodotti (assobioplastiche.org).
Un settore che nel 2018 ha registrato una grande crescita con il nuovo obbligo di sacchetti ultraleggeri per il confezionamento di prodotti sfusi (come quelli per l’ortofrutta nei supermercati), che con 15mila tonnellate sono diventati la seconda principale applicazione dopo le buste della spesa (che rappresentano ancora il 61% della produzione, nonostante un calo del totale prodotto, passato da 118mila tonnellate nel 2013 a 88mila tonnellate nel 2018). Con l’obiettivo di gestire correttamente gli imballaggi in bioplastica e di dare ai cittadini gli strumenti per riconoscerli e differenziarli correttamente e per incrementarne il riciclo, nel dicembre 2018 i sei più grandi produttori e trasformatori di bioplastiche d’Italia -Ceplast, Ecozema-Fabbrica Pinze Schio, Ibi plast, Industria Plastica Toscana, Novamont e Polycart- hanno fondato il consorzio Biorepack, presentando il proprio statuto al ministero dell’Ambiente (che, quando scriviamo, non l’ha ancora approvato in via definitiva). Biorepack si propone come un nuovo consorzio di filiera del Conai (Consorzio nazionale imballaggi, conai.org), ovvero uno di quei soggetti che garantiscono il ritiro dei rifiuti dei diversi imballaggi raccolti in modo differenziato, la loro lavorazione e la consegna a chi ne gestisce il riciclo. Sarebbe questo il settimo consorzio di filiera -deputato alla gestione degli imballaggi in bioplastica-, dopo Cial (alluminio), Ricrea (acciaio), Comieco (carta), Rilegno, Corepla (plastica) e Coreve (vetro). C’è poi il Consorzio italiano compostatori (Cic, compost.it), che non fa parte del sistema Conai, e promuove e valorizza le attività di riciclo della frazione organica dei rifiuti.
“Il fine vita delle bioplastiche non è lo stesso delle plastiche, ma è invece strettamente interconnesso alla raccolta del rifiuto organico” – Marco Versari, ad Assobioplastiche
La fondazione del nuovo consorzio è un passaggio importante: oggi il Conai paragona ancora i produttori di bioplastiche a quelli di materiali plastici, e il loro contributo ambientale -la forma di finanziamento con cui Conai ripartisce i costi della raccolta differenziata, del riciclaggio e del recupero dei rifiuti-, va nelle casse del Corepla. È pari a circa 20 milioni di euro l’anno, secondo la stima fatta ad Altreconomia dal presidente di Assobioplastiche, Marco Versari. L’associazione critica il sistema, perché “il fine vita delle bioplastiche non è lo stesso delle plastiche, ma è invece strettamente interconnesso alla raccolta del rifiuto organico e al compostaggio industriale, che rappresenta il naturale fine vita dei manufatti compostabili”. Con Biorepack, invece, il contributo sarebbe investito in una nuova filiera di settore e destinato, come dice Versari, “a un lavoro sinergico con le piattaforme di trattamento dei rifiuti organici e per attività di comunicazione sul corretto utilizzo e riciclo delle bioplastiche”.
Il fine vita delle bioplastiche è proprio l’aspetto fondamentale per Armido Marana, dell’azienda Ecozema di Schio (VI): “Per come le intendiamo noi devono avere fine vita in impianti di compostaggio”. Un aspetto centrale, poiché oggi non tutti gli impianti di compostaggio stanno riuscendo a smaltire correttamente la crescente quantità di bioplastiche immesse nel sistema. Il Consorzio italiano compostatori stima in quasi 7 milioni le tonnellate di rifiuti organici provenienti dalla raccolta differenziata in Italia nel 2018. “Nell’arco di un decennio (2008-2017) il settore ha avuto una crescita costante con un aumento del 100% dei quantitativi generati e trattati e un costante aumento anche dell’impiantistica dedicata”, dice Massimo Centemero, direttore del Cic. Ma quando chiediamo quali sono gli impianti italiani idonei a smaltire le bioplastiche insieme al rifiuto organico, Centemero risponde: “Difficile oggi fare una lista esaustiva poiché fino ad ora non ci si era posti il problema. Da quando le bioplastiche sono sul mercato, gli impianti hanno sempre assicurato non solo il ritiro, ma anche l’efficace trattamento di recupero o riciclo”.
61% è la quota delle bioplastiche prodotte in Italia usate per realizzare buste della spesa
Secondo Armido Marana per garantire il corretto fine vita alle bioplastiche “non possiamo pensare di far diventare in bioplastica qualunque tipo di oggetto che prima era in plastica tradizionale”. Secondo l’interpretazione di Biorepack, “le bioplastiche sono ideali per materiali che devono entrare in contatto con il cibo e con il rifiuto organico”. E quindi: sacchetti leggeri, piatti, posate e bicchieri. Le plastiche a base bio, quindi, “rappresentano una soluzione a un certo tipo di applicazioni, ma non sono una panacea. L’obiettivo generale è quello di una riduzione dei rifiuti e della corretta gestione del fine vita della plastica”, aggiunge Marana.
Un’altra chiave di lettura sta nella nuova direttiva europea sulle plastiche monouso (chiamata SUP, “Single-Use Plastic”), la numero 904 del 5 giugno 2019, “sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente” -come recita il titolo-, che ne prevede l’eliminazione dal luglio 2021. Nel recepire la direttiva, “i Paesi membri devono trovare soluzioni per garantire la sopravvivenza di sistemi industriali importanti, ma per farlo serve una chiarezza normativa, mentre non è ancora chiaro cosa farà l’Italia”, dice Marco Versari. Il punto è capire se il nostro Governo comprenderà, o meno, le bioplastiche nell’interpretazione della direttiva.
“Quando vieta alcuni degli articoli plastici che più spesso ritroviamo nell’ambiente, la direttiva europea non esenta le opzioni in bioplastiche compostabili”, osserva Silvia Ricci, responsabile campagne dell’associazione Comuni Virtuosi e ideatrice nel 2009 della campagna “Porta la sporta”. Per Ricci non è sufficiente cambiare i materiali con cui realizzare il monouso: “Occorre cambiare i gesti improntati a un consumo eccessivo di risorse”. Ricci ha analizzato le quasi 130 ordinanze comunali che in diversi modi pongono dei limiti all’utilizzo della plastica usa-e-getta rilevando che sono “per lo più basate su una sostituzione di manufatti in plastica con opzioni compostabili equivalenti” e non considerano che “la direttiva promuove espressamente ‘approcci circolari che privilegiano prodotti e sistemi riutilizzabili sostenibili e non tossici, piuttosto che prodotti monouso, con l’obiettivo primario di ridurre la quantità di rifiuti prodotti’”. Anche i dati di Assobioplastiche, infatti, confermano che gli articoli monouso in bioplastica nel 2018 hanno registrato un aumento del 90%. Un altro problema è la difficoltà nel distinguere le bioplastiche da quelle tradizionali. “Le scelte fatte dall’industria di passare sempre più a imballaggi compostabili che non sono sacchetti, come cialde da caffè, vaschette e altri involucri difficilmente riconoscibili dalle plastiche di origine fossile, causerà un livello di confusione ingestibile tra gli utenti e gli operatori della filiera dell’organico”, aggiunge Ricci. La crescita dell’uso delle bioplastiche, insomma, non è stata anticipata dalla costruzione necessaria di “un sistema di recupero adatto a gestire al meglio questi nuovi materiali”.
“Sostituire la plastica con altri materiali non è sempre la soluzione migliore, poiché tutti i materiali hanno un impatto ambientale” – Neil Parish, parlamentare britannico
Guardando all’Europa, Ricci porta l’esempio dell’Inghilterra, che sta ponendo al centro il problema ambientale, oltre a quello delle ricadute sulla gestione dei rifiuti. L’“Environment, Food and Rural Affairs Committee” del Parlamento britannico, a partire dai risultati del 16esimo rapporto “Plastic food and drink packaging” (consultabile sul sito parliament.uk), nel settembre 2019 ha chiesto al Governo di concentrarsi sulla riduzione di tutti gli imballaggi monouso, non solo di plastica. “Sostituire la plastica con altri materiali non è sempre la soluzione migliore, poiché tutti i materiali hanno un impatto ambientale”, ha detto Neil Parish, presidente della Commissione. “Ci preoccupiamo anche del fatto che la plastica compostabile sia stata introdotta senza che i consumatori abbiano capito come smaltirla. Fondamentalmente, la sostituzione non è la risposta e dobbiamo cercare modi per ridurre gli imballaggi monouso”. Secondo la Commissione, la confusione sul corretto smaltimento delle bioplastiche “potrebbe comportare la contaminazione del riciclaggio a secco e della raccolta differenziata. Non siamo quindi a favore di un aumento generale dell’uso di imballaggi compostabili a livello industriale in questa fase”, ma solo in “ambienti a circuito chiuso, come eventi sportivi e luoghi di lavoro con strutture di ristorazione, dove esiste un servizio di smaltimento e raccolta dedicato”.
50 sono le imprese che fanno parte di Assobioplastiche: l’associazione è nata nel 2011
Tornando all’Italia, Silvia Ricci porta l’esempio del provvedimento della Regione Marche che, nel recepire la definizione di plastica data dalla direttiva europea, “non esenta le opzioni in bioplastiche o materiali poliaccoppiati come carta e plastica, e mette a disposizione un fondo per iniziative coerenti con modelli di economia circolare basati sulla prevenzione nel consumo delle risorse e sul riuso”. Anche l’Emilia-Romagna sta intraprendendo questa direzione. Infine, osserva Ricci, cominciano a intravedersi modelli di business basati su prodotti, “come il bicchiere in silicone ‘PCUP’ (pcup.info), che sostituisce i bicchieri usa e getta con una soluzione riutilizzabile, creata in un materiale indistruttibile. Per ora si sta diffondendo in occasione di grandi eventi pubblici, ma è uno degli esempi più promettenti e innovativi che, se tutto va come deve, potrebbe stupirci con un nuovo progetto”.
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