Altre Economie
L’ultima frontiera dell’equo
Borse e gioielli dall’Asia centrale alle botteghe italiane. È frutto di una collaborazione tra la ong Cesvi e altraQualità —
Le donne del laboratorio Johannek lavorano pelli di yak e di pecora. Vivono a Dushanbe, capitale di un Paese dalla forma strana, incastonato tra Afghanistan, Cina, Kirghizistan e Uzbekistan, senza sbocco al mare e dal passato sovietico: il Tajikistan. Poi ci sono i cuscini di Dastoni Mohir: in una lunga vallata che collega il Tajikistan con il Kirghizistan, le donne del luogo si tramandano da generazioni le tecniche per la lavorazione del feltro. A Khorog, il capoluogo dell’aspra e bellissima regione del Pamir, la fondazione Rupani crea i suoi gioielli in pietra dura. E sempre a Khorog, gli artigiani guidati dall’ong tagica “De Pamiri” realizzano i loro accessori in feltro.
Sono i “prodotti parlanti” -perché raccontano luoghi e persone- di un nuovo progetto di commercio equo e solidale, realizzato in collaborazione tra l’ong di Bergamo Cesvi (www.cesvi.it) e la cooperativa di fair trade altraQualità di Ferrara, con la collaborazione di Whomade designlab, agenzia creativa di Milano. Li vedremo in bottega in autunno, dopo una sperimentazione in alcune botteghe a fine 2012 (a Bologna, Ravenna, Brescia e Bergamo, per la precisione).
“Siamo in Tajikistan dal 2001 -spiega Davide Costa, di Cesvi-, dalla fine della guerra civile durata dal ‘92 al 1997. Con la stabilizzazione della situazione politica, il nostro lavoro è cambiato. Dalla gestione dell’emergenza siamo passati a progetti di sviluppo economico per le popolazioni rurali”. Il Tajikistan non è più al centro del “grande gioco” diplomatico e strategico di fine ‘800, quando russi e inglesi si contendevano la regione, magistralmente descritto dallo scrittore Peter Hopkirk. Il passato sovietico è solo un ricordo. Oggi rimane un Paese dal prodotto interno lordo tra i più bassi delle ex repubbliche sovietiche, eppure splendido, visitato da appena 10mila turisti l’anno, con una popolazione frutto dell’incontro di culture ed etnie molto diverse, dalle fattezze che a seconda della regione ricordano iraniani, afgani, mongoli. Gli abitanti sono 7,5 milioni: un milione di persone, praticamente la metà della forza lavoro, è all’estero (soprattutto in Russia) e contribuisce a una delle principali voci di entrata: le rimesse. Mentre nel Paese vige una dittatura “morbida” travestita da repubblica presidenziale (a ottobre le prossime elezioni) guidata da Emomali Rahmonov.
“Tra il 2008 e il 2010 abbiamo iniziato a mettere insieme donne già attive nell’artigianato, riunendole in cooperative, per garantire un modello democratico nella gestione delle risorse. Con l’appoggio dell’Unione europea, abbiamo intrapreso un progetto per tentare di collegare la realtà tagica con l’Europa. L’obiettivo principale era parlare -per la prima volta- di commercio equo e solidale in Asia centrale, laddove l’idea era del tutto sconosciuta. Tanto è vero che abbiamo lavorato non poco per una traduzione del termine fair trade, che fosse chiara ma rispettasse un contesto quasi europeo. Una declinazione che ha dato vita all’espressione commercio mutualmente profittevole” (in tajico “Савдои боадолат”, in russo “Справедливая торговля”).
Cesvi lavora dunque per riunire e coordinare organizzazioni operanti nell’artigianato, settore lasciato ai margini dell’economia. Tra i partner del progetto c’è infatti anche la National Association of Small and Medium Business of Tajikistan, che unisce le piccole e medie imprese e gli intermediari commerciali, promuove i loro interessi e tutela i loro diritti (www.namsb.tj)
Prima vengono individuati i prodotti più adatti a un’eventuale esportazione in Europa: la scelta cade su pelle, feltro, pietre dure. Da lì parte la collaborazione con le realtà italiane di fair trade. “Il percorso è iniziato nel 2011, dopo una prima ricognizione con altraQualità, che abbiamo scelto come attore del commercio equo per accompagnarci. In quell’occasione, abbiamo incontrato 20 organizzazioni di produttori. Ne abbiamo selezionata una dozzina, che abbiamo riunito per 12 giorni, nella capitale, in un workshop all’interno di un cortile tipico dell’Asia centrale, dove 23 artigiani che non si conoscevano prima di allora hanno iniziato a lavorare insieme, trasmettersi saperi e idee, mentre si lavorava alla definizione di prodotti destinati al mercato estero”.
“Nel Paese l’artigianato è scarsamente considerato -spiega David Cambioli, di altraQualità (www.altraq.it)-. C’è un’impostazione quasi ‘sovietica’, che considera economia solo l’industria. Il sapere artigiano è per lo più destinato allo scambio locale, salvo nei luoghi, come il Pamir, dove c’è del turismo. Chi fa artigianato lo fa per integrare il proprio reddito. Per questo tra i produttori ci sono anche insegnanti, e qualche laureato”. Metà sono donne, anche perché la generazione di maschi adulti è per lo più all’estero a lavorare. Per il resto l’economia è cotone e alluminio. E narcotraffico, dall’Afghanistan. Dopo il workshop dell’aprile 2012 abbiamo fatto altri due viaggi, e stabilito i prodotti a partire dai quali costruire la filiera”. Si arriva così alla definizione di 4 gruppi di produttori, e all’idea di un marchio col quale farsi riconoscere (e nel quale riconoscersi) -“Tajiki Handicraft”-, che deve la sua ideazione anche alla collaborazione con WhoMade (whomade.it). “Gli oggetti veicolano messaggi culturali e sociali -aggiunge Edoardo Perri, che del laboratorio di design è una delle anime-. Danno forma al modo in cui ci rapportiamo agli altri. Poiché lavorare in contesti interculturali è sempre stato un nostro interesse, era quasi naturale arrivare al fair trade, col quale collaboriamo da anni, ambito in cui l’oggetto è sempre sperimentazione di rapporto tra culture”. A WhoMade il compito di concepire la programmazione per il progetto, la tipologia di intervento, identificare potenzialità per il mercato europeo, e arrivare a un catalogo di prodotti. “Siamo partiti dall’Italia con l’obiettivo di capire che materiali usano, qual è il contesto in cui vivono, quali sono le loro tecniche. Abbiamo mappato l’esistente, e cercato di capire la predisposizioni verso certi materiali e processi. Abbiamo anche valutato l’effetto che fare una certa attività nei rapporti sociali di chi la intraprende. Applichiamo un metodo di design che sviluppa le potenzialità creative di chi è coinvolto, uscendo e poi rientrando nella propria routine. Abbiamo proceduto per sperimentazioni. Dalle sperimentazioni siamo passati ai concept, dai concept alle tipologie merceologiche di prodotto. Infine, abbiamo affinato il risultato in termine di qualità pensando all’export, ma anche al mercato interno. Il design deve coniugare l’aspetto estetico con tutto il processo imprenditoriale. Che vuol dire programmare il lavoro”.
Anche per questo, una seconda parte del progetto -cominciata a gennaio 2013- prevede la creazione di filiere di approvvigionamento degli accessori, che in Tajikistan arrivano con grave discontinuità soprattutto dalla Cina, o non si trovano per mesi.
“Siamo al lavoro per migliorare i prodotti -conclude David Cambioli-. Rispetto ai prezzi, le borse forse costano un po’ di più rispetto a quelle che arrivano dall’India, mentre i gioielli hanno prezzi in linea con quelli del fair trade. Il feltro è un po’ più caro di quello ad esempio che arriva dal Nepal, ma basta ricordarsi che tutti i prodotti tagiki sono realizzati a mano, per capirne il motivo”. Il catalogo di tutti i prodotti è sulla pagina www.facebook.com/tajikihandicraft.
Chi invece vuole scoprire una perla nascosta dell’Asia centrale, può rivolgersi a Viaggiemiraggi per farlo col turismo responsabile. Due le proposte per l’estate 2013, ciascuna di 2 settimane: la prima comprende Tajikistan e Uzbekistan, l’altra si concentra sul Pamir.
Ovviamente, d’obbligo le visite ai produttori di Tajiki Handicraft: tutte le info e il programma dei viaggi su www.viaggiemiraggi.org. —