Altre Economie
L’olio buono ha la sapienza della terra
L’extravergine biologico non sente la crisi, al contrario di quello del supermercato. Il motivo lo si comprende tra gli uliveti in riva al Garda “L’ulif” è l’olivo in dialetto bresciano, quello che riempie le colline lungo le sponde del Lago…
L’extravergine biologico non sente la crisi, al contrario di quello del supermercato. Il motivo lo si comprende tra gli uliveti in riva al Garda
“L’ulif” è l’olivo in dialetto bresciano, quello che riempie le colline lungo le sponde del Lago di Garda. E l’ulif è anche il soprannome della famiglia Delai, che da sempre lavora questa terra.
Prima quella del Conte Loro, il possidente locale: i Delai erano maestri nella potature degli ulivi e nella “sluppatura”, la pratica di scavare il tronco per eliminare la parte morta degli alberi. Oggi la propria: “L’ulif” è il nome scelto da Silvano Delai (nella pagina accanto), quando, nel 1989, ha deciso di tornare alla terra, dopo aver vissuto a Rho (Mi) dall’età di 4 anni.
A Picedo di Polpenazze sul Garda, in Valtenesi (Bs), produce olio e vino biologici (www.lulif.it): “Vedi quei vecchi alberi -mi mostra camminando nell’oliveto-, hanno oltre cento anni e molto probabilmente sono stati ‘messi a dimora’ da mio nonno”. Silvano, che oggi ha circa 600 piante, in zona è considerato un grande produttore: “Da ogni albero si ricavano in media 38-40 chili di olive, e la resa al frantoio è dell’11%”. Cioè undici chili d’olio per ogni quintale di olive: “Fare un extravergine di qualità non è difficile. Dipende dal terreno, dal clima. Ed è importante, perché promuove la ‘tipicità’ del prodotto italiano, anzi di ogni zona del Paese”.
Delai è un “maniaco della tipicità”: “Purtroppo -spiega-, abbiamo il malcostume di ‘tagliare’ l’extravergine italiano con oli esteri. E questo non serve a ‘dare al consumatore ciò che chiede’. Perché non è vero che gli italiani non vogliono oli ‘raffinati’, sono stati abituati a usarli”.
Una filosofia che sembra pagare: l’extravergine di oliva biologico è anticiclico. La crisi economica, che tocca anche il mercato dell’olio, spinge gli italiani verso prodotti di maggiore qualità.
È una questione di fiducia, che le statistiche confermano: nel mese di aprile, le vendite di extravergine sono crollate del 19,2% rispetto allo stesso mese dello scorso anno, “e le uniche categorie che guadagnano posizioni sono il biologico, che sale del 25,6%, e le Dop e Igp (+16,7%)”.
Lo scrive Assitol, l’Associazione italiana dell’industria olearia (www.assitol.it), che definisce bio e Dop “prodotti di nicchia”. È vero che il mercato vale “zero virgola” in termini di fatturato (quello complessivo del settore supera i 3,5 miliardi di euro), ma è innegabile che “pesa” molto nel giudizio dei consumatori. Anche degli stranieri, quelli, per intenderci, che scegliendo olio d’oliva italiano credono di premiare l’eccellenza del made in Italy.
Quella di azienda come L’ulif: “La molitura avviene a pochi chilometri, in riva al lago, nel frantoio cooperativo di San Felice sul Benaco -spiega Silvano-: un frantoio ‘privato’ sarebbe un investimento inutile (per un macchinario che si usa un mese all’anno, ndr), e poi sarei rimasto senz’altro da solo a fare il biologico, non avrei ‘comunicato’ la mia scelta. Così sto vicino ad altri produttori, posso convincerli che produrre secondo i criteri dell’agricoltura bio ‘conviene’, anche in termini economici”.
Ancora non c’è riuscito, perché fanno biologico solo 8 dei 230 associati.
Delai è anche presidente dell’associazione “La buona terra”, nata nel 1985, che si occupa di assistere gli agricoltori che vogliono passare al biologico e di promuovere i loro prodotti (a Brescia, con un mercatino settimanale: vedi www.labuonaterra.it), e vorrebbe fare di Polpenazze una “città del bio”, per attirare i turisti del Garda.
Ma è un sognatore con i piedi ben piantati nella terra: “Credo che condurre un oliveto biologico sia facile. Il prodotto finale, poi, l’extravergine, si conserva da solo: eppure, ed è un paradosso, è il prodotto più sofisticato in campo alimentare”. Si avvicina a un olivo di pochi anni: una pianta biologica costa 8 euro: “Chi parte da zero, deve saper dare alla pianta il suo tempo. Noi possiamo usare solo concime organico -mi spiega Delai-, e ogni olivo così ci mette una decina d’anni a diventare produttiva. Le ‘piante’ tradizionali, tirate su con urea e zolfo, hanno bisogno della metà del tempo”. Poi, però, basta una nevicata per uccidere la pianta, perché i rami non hanno legnificato.
Una differenza fondamentale è nel modo di trattare la mosca olearia: il disciplinare biologico permette di utilizzare trappole a “cattura massale”, da posizionare sulle piante, che attirano gli insetti, o il piretro, un’insetticida naturale di bassa tossicità. “L’olivicoltura tradizionale usa il dimetoato -racconta Delai-, che distrugge tutti gli animali e insetti che vivono nell’oliveto, con costi ambientali e per la salute di chi ci lavora. Costi che purtroppo non vengono conteggiati nel prezzo finale dell’extravergine di oliva”.
Quand’è nata la Dop “Garda bresciano”, Delai ha scelto di aderire, “per dare una garanzia seria e controllata”. Per chi ha la Denominazione, peraltro, il nuovo Regolamento Ce 182/09, in vigore dal 1° luglio 2009, che obbliga a indicare l’origine dell’olio in etichetta e sta facendo discutere l’industria dell’olio (vedi sotto), non cambia nulla: la Dop “dichiara” che l’olio è prodotto in una determinata zona. Per chi imbottiglia all’origine, non sarà necessario scrivere “olio italiano”.
“La qualità dell’olio extravergine dipende da come le olive vengono trattate in frantoio. Ne ho cambiati tre prima di trovare quello giusto”. Lorenzo Andi è un agronomo. Negli anni Novanta è stato direttore tecnico di Demeter, l’ente di certificazione dell’agricoltura biodinamica, e dal 1997 è titolare dell’azienda agricola olivicola a conduzione biodinamica “Solidòr” (www.solidor.it), 7.500 olivi monovarietale frantoiano sulle colline di tufo di Pitigliano (Gr): “La ‘molitura’ dovrebbe avvenire entro 24 ore dalla raccolta, e la temperatura di estrazione dell’olio è molto importante: quella ottimale è tra i 27 e i 29°, e viene definita ‘spremitura a freddo’. Nei frantoi moderni, quelli in acciaio dove il processo avviene in continuo, puoi metter dentro acqua a varie temperature. Il problema è che rischi di ‘cuocere’ l’olio, di perdere le frazioni profumate, quelle che danno il gusto e i sapori”. Il tutto, per avere una resa migliore.
Chi sceglie di tirar fuori più olio rinuncia alla qualità. È la storia dell’extravergine che finisce nelle bottiglie in vendita al supermercato, che inizia fuori dalla porta del frantoio. I marchi più noti lavorano olio grezzo di questo tipo: di olive, nei grandi stabilimenti, non ne entrano mai.
Il mercato come un’ampolla
775mila piccole aziende, sette grandi gruppi
Il mercato italiano dell’extravergine d’oliva assomiglia a una di quelle oliere a forma di ampolla.
Ha una base larghissima, che occupa 1,1 milioni di ettari ed ospita circa 775mila aziende olivicole, piccole o piccolissime attività per lo più, con una superficie media di un ettaro e mezzo.
Il becco è molto stretto, invece, e rappresenta l’industria olearia. Sono circa 200 le aziende che confezionano i marchi più conosciuti, quelli che riempiono gli scaffali dei supermercati. Ma oltre la metà del mercato, che nel 2007 ha fatturato 3,69 miliardi di euro, oltre il 3% dell’intero comparto agro-alimentare, è controllato da 7 gruppi: Carapelli, Bertolli, Salov, Castel del Chianti spa, Olitalia, Monini, Aziende Olearia Valpesana spa, Fratelli Carli spa (vedi tabella nella pagina seguente).
In mezzo ci stanno i frantoiani (circa 5mila) e gli intermediari che si occupano del commercio all’ingresso dell’olio, la maggior parte dei quali riuniti nella Federazione nazionale del commercio oleario (Federolio).
L’unica certezza in una filiera così allungata è che anche chi produce olive, come molti altri agricoltori, non ha nessun controllo sul prezzo che viene riconosciuto (o imposto) dal mercato. E che l’unica scelta “di mercato” che può prendere l’azienda olivicola è quella di non raccogliere, quando la vendita dell’olio sfuso non copre nemmeno il costo di raccolta. A luglio 2009, ad esempio, a Bari l’olio valeva 2,53 euro/kg, a Catanzaro 2,23, contro i 5,05 euro al kg per l’extravergine della Sabina e i 4,75 che si pagano a Firenze per l’Igp Toscano. E i prezzi oscillano, di settimana in settimana, seguendo tutte le caratteristiche di una tipica commodity. Com’è evidente, i prezzi bassi caratterizzano le regioni dell’Italia meridionale, dove si concentra la produzione nazionale: delle 687mila tonnellate di extravergine prodotti in un anno, secondo l’Istituto per i servizi ai mercati e alimentari (Ismea), più di 4/5 arrivano da quattro regioni (il 36% dalla Puglia, il 34% dalla Calabria, l’8% dalla Sicilia e il 6% dalla Campania). Le stime sulla produzione italiana hanno però il limite degli scarsi controlli sugli olivicoltori, che in alcuni casi dichiarano quantità maggiori per avere accesso agli aiuti Ue. Soprattutto quelli pugliesi e calabresi, medio-grandi, il cui olio è un prodotto di massa, che subisce la concorrenza diretta dell’olio di oliva spagnolo, più a buon mercato, di cui l’Italia è primo importare al mondo (vedi tabella sotto). Il nostro Paese, infatti, non è autosufficiente: la produzione interna non basta a soddisfare il consumo interno, e a questo si deve aggiungere l’export. È abbastanza frequente, così, che nelle bottiglie esportate (come in quelle vendute sul mercato nazionale) ci sia olio extravergine d’oliva non italiano. L’importante è però il marchio italiano, che diventa “veicolo” della qualità del prodotto, come spiegano in una lunga intervista alla rivista spagnola Olint -dedicata allo sviluppo del metodo superintensivo per la produzione di olio d’oliva- i fratelli Salazar, protagonisti tra il 2005 e il 2005 con il Gruppo Sos Cuetara, oggi in caduta libera, di una scalata ai più importanti brand italiani (Bertolli, Carapelli, Sasso, Minerva): “Il consumatore di molti Paesi ritiene che l’olio d’oliva sia tutt’uno con la cultura italiana. Il Gruppo Sos ha acquistato marchi italiani perché lo chiede il consumatore. I Paesi anglosassoni e del Nord Europa stanno cominciando solo ora a scoprire l’olio spagnolo, però sempre in seconda posizione. Invece di attendere 20 o 30 anni per convincerli che l’olio spagnolo è altrettanto o più buono di quello italiano, la cosa più semplice ci è sembrata quella di prendere il veicolo italiano e utilizzarlo”.
Una strategia di mercato che è messa a rischio dal nuovo Regolamento Ce (il n. 182/09) sulla commercializzazione dell’olio d’oliva, in vigore anche in Italia dal 1° luglio. D’ora in poi, l’etichetta dovrà riportare diciture come “ottenuto da olive italiane”, “ottenuto da olive coltivate in Italia” o “100 % da olive italiane”, oppure “miscele di oli di oliva comunitari”, “miscele di oli di oliva non comunitari” o di “miscele di oli di oliva comunitari e non comunitari”.
L’importanza del regolamento sta nella “trasparenza” dell’informazione: il consumatore potrà scegliere, consapevolmente, di acquistare olio italiano, spagnolo, greco o tunisino. O della Palestina, come quello commercializzato dalle centrali del commercio equo (vedi box nella pagina accanto). Il direttore di Assitol Claudio Ranzani non si scompone: “L’obiettivo dell’industria olearia è quello di fornire un prodotto finito ‘costante’: ciò significa che quando lei compra un extravergine di una determinata marca, si aspetta sempre uno stesso gusto, con caratteristiche definite. Le aziende hanno la necessità di offrire un prodotto il più costante possibile. Ma le materie prime variano, e così i sapori: le nostre aziende hanno tecnici molto esperti nel ‘miscelare’ oli”. Una capacità riconosciuta nel “miscelare” oli diversi che in assenza di controlli porta anche a frodare il consumatore. A gennaio 2009, nel porto di Napoli sono stati sequestrati dall’agenzia delle Dogane 420 quintali di olio (non) extravergine diretto negli Usa. A inizio luglio, invece, i Nas di Bologna hanno sequestrato tredicimila litri di olio etichettato come “extravergine di oliva” e come “olio di oliva”. In realtà era olio di soia sofisticato. Due esempi per spiegare come sia possibile, nella grande distribuzione, comprare oli extravergini di oliva per 1,99 al litro. La risposta la avrete facendoli analizzare.
Duecento anni
L’oleificio Zucchi supera la prova della "Guida al consumo critico"
L’unica industria olearia che supera l’esame della Guida al consumo critico ha sede a Cremona e duecento anni di storia. Dell’Oleificio Zucchi il Centro nuovo modello di sviluppo premia la trasparenza, merce rara in un settore -quello di “oli e margarine”- dove prevale un giudizio di critica severa. Per questo siamo andati a controllare. Nell’atrio della sede aziendale, una stampa ricorda che “ambiente, etica, qualità” sono i valori che legano la storia del gruppo: dal 1810, quando l’attività iniziò con la produzione di olio di lino, ad oggi, con l’ingresso in azienda della quinta generazione, Alessia e Giovanni (nella foto sotto). Oggi l’Oleificio Zucchi si occupa di raffinare oli grezzi, miscelare e confezionare oli raffinati, e dal 2005 pubblica il proprio bilancio di sostenibilità. Nessun problema a raccontare in dettaglio come lavora un’azienda che nel 2008 ha venduto 113mila tonnellate di olio, fatturando 150 milioni di euro (il 13% su mercati esteri), ed è la seconda in Italia per la commercializzazione di olio di semi (mais, soia, girasole, arachide, mentre il comparto dell’extravergine di oliva resta poco sviluppato). Un racconto che non nasconde i propri “limiti”: in Italia non ci sono materie prime per produrre olio di semi (coltiviamo a colza, girasole e soia solo 259.000 ettari, secondo stime di Assitol), e così l’Oleificio Zucchi importa l’olio grezzo da Ucraina e Russia (27%, principalmente girasole), Brasile (17%, arachidi e soia), Argentina (15%, girasole e soia). Il 23% della materia prima utilizzata nel 2008 (compreso l’olio di oliva ed extravergine) è italiana. L’Oleificio Zucchi punta molto sull’efficienza energetica, riducendo i consumi di acqua, metano ed elettricità per tonnellata di materia prima lavorata, e il chilometraggio della flotta di autocisterne aziendali (quasi 400mila chilometri percorsi nel 2009): nell’ultimo anno è stato inaugurato un tronchetto ferroviario che collega lo stabilimento alla Rfi, e l’olio potrà arrivare dal porto di Genova su rotaia (250 viaggi su camion in meno al mese). Nel confezionamento, invece, la vecchia latta sta perdendo terreno, scalzata dal Pet: chiedono plastica i consumatori che acquistano nella Gdo (il 35% del fatturato per l’Oleificio, il 48% arriva dall’industria alimentare cui viene venduto il prodotto sfuso), dove l’azienda è presente con marchi propri (Zeta, Semper, Zenit, New Linea per gli oli di semi; Zucchi, Castello, tra gli altri, per gli oli d’oliva) e attraverso i private label della grande distribuzione (da Conad ad Esselunga, da Selex a Penny). Fiore all’occhiello dell’azienda, la certificazione, dal 2003, che gli oli di soia e mais sono “no ogm”. Un impegno che non è bastato, però, a restare clienti Coop: il contratto è scaduto l’anno scorso e, dopo oltre trent’anni, non sarà rinnovato; le cooperative hanno scelto la concorrenza. Criterio: il prezzo più basso.
Anche in bottega
L’extravergine formato “bottega” arriva dalla Palestina. Quello importato da Ctm altromercato (altromercato.it), da agricoltura biologica è prodotto nella Regione di Salfith, a Nord di Ramallah, da cooperative di olivicoltori legate a Parc (Palestinian Agricultural Relief Committee), partner di Ctm che sostiene un progetto di rafforzamento dell’agricoltura rurale in tutta la Palestina (750 ml, 13 euro).
Sindyanna of Galilee, partner di Liberomondo, è un’organizzazione no-profit nata nel 1996, registrata in Israele e frutto di un’iniziativa congiunta di donne arabe e israeliane.
L’obiettivo di Sindyanna è sostenere la coltivazione dell’olivo e la produzione di olio, anche nei territori occupati da Israele. Tra gli obiettivi, la costruzione di un frantoio per poter controllare tutta la filiera produttiva. Per garantire ordini più consistenti, Liberomondo utilizza l’olio (750 ml, 10,5 euro) anche nei propri prodotti da forno, come tarallini e cracker (liberomondo.org).
La stessa cooperativa “porta” nel mondo del commercio equo e solidale anche l’extravergine “bio” di Libera Terra, prodotto da olive cultivar ottobratico e sinopolese su 60 ettari di terreni confiscati alla ‘ndrangheta nella Piana di Gioia Tauro dalla cooperativa “Valle del Marro” (valledelmarro.it).