Diritti / Opinioni
Lo Yemen non esiste
24 milioni di persone, una guerra civile che devasta il Paese da più di due anni, e come se non bastasse la carestia. Ma non c’è spazio per tutto questo sui nostri mass media. “Il volo a pedali”, la rubrica a cura di Luigi Montagnini
Nello Yemen 24 milioni di abitanti vivono da anni instabilità e violenza a vari livelli: tribale (prima viene l’appartenenza a un clan, poi l’identità nazionale), religioso (sciiti contro sunniti), amministrativo (la corruzione è ovunque), civile (il Nord e il Sud si sono riunificati nel 1990, dopo un passato di influenze ottomane, egiziane, inglesi e russe), transnazionale (con le ingerenze di Arabia Saudita e Iran) e internazionale (uno dei terreni di lotta preferiti dagli Usa nella “guerra al terrore”). A seguito delle proteste della primavera araba del 2011, dopo una fase di repressione violenta, il presidente Saleh si è dimesso, lasciando il posto ad Hadi, vittima a sua volta di un colpo di Stato da parte della fazione sciita Houthi, alleata con Saleh. Lo scontro tra i seguaci di Hadi, sostenuto dall’Arabia Saudita (e dietro di lei Usa e Gran Bretagna) e gli Houthi, che godono della simpatia dell’Iran sciita, è alla base dell’ultima guerra civile che devasta lo Yemen da più di due anni.
32 anni era l’età della giornalista yemenita Tawakkul Karman quando vinse il premio Nobel per la Pace 2011 “per la sua battaglia non violenta a favore della sicurezza delle donne”. Nel 2005 Tawakkul Karman aveva fondato il gruppo “Women Journalists Without Chains”
La mia cartolina di Aden, città portuale nel Sud del Paese, dove ho lavorato nel 2012, sono i quattro piani dell’ospedale da cui non sono mai uscito in cinque settimane. Piano terra, degenze e sale operatorie. Primo piano, uffici, stanze da letto e tavolo da ping-pong. Secondo piano, tetto a terrazza, da dove osservare la città per farsi accompagnare lungo le strade dai suoi suoni: il canto degli imam, il grido dei gabbiani, il concerto dei clacson delle automobili, i colpi dei fuochi d’artificio o dei fucili, il soffio del vento. Al piano -1, la cantina, dove ho trascorso una notte in attesa che finisse una sparatoria: già, l’aviazione saudita non aveva ancora fatto il suo ingresso in campo e, per mia fortuna, non aveva ancora preso piede la terribile prassi, già nota in altri contesti, di attaccare gli ospedali con le bombe.
Hanno iniziato nel 2015 e da allora, con una frequenza impressionante, sono state bombardate un gran numero di strutture sanitarie: Haydan, Taiz, Abs sono solo esempi degli attacchi che hanno avuto un impatto enorme su un sistema sanitario già debole. I civili sono le prime vittime di questa guerra distruttiva: l’accesso a cure mediche è gravemente compromesso e gli aiuti medico-umanitari non sono ancora in grado di far fronte ai bisogni più basilari della popolazione. Le persone hanno sempre più paura di entrare negli ospedali per il rischio di essere colpite da colpi di artiglieria, bombardamenti aerei, sparatorie, mine o cecchini.
Guardando le mappe della penisola arabica, si intuisce subito che qualche era geologica fa, lo Yemen era un tutt’uno con le coste del corno d’Africa. Ora il Mar Rosso impedisce allo Yemen di ricongiungersi in un bacio con l’Eritrea, Gibuti e la Somalia e, forse per questo motivo, lo stretto che separa il mar Rosso e il golfo di Aden si chiama Bab el-Mandeb, “la porta delle lacrime”. La deriva dei continenti, però, non ha impedito alla carestia che attanaglia l’Africa orientale di raggiungere lo Yemen, vittima anche lui di una terribile crisi alimentare: 17 milioni di persone sono in Stato di insicurezza alimentare, e di queste quasi 7 milioni sono in condizioni di emergenza (dati Onu). Lo Yemen è completamente dipendente delle importazioni di cibo e farmaci, ma la guerra -che non è un’entità astratta, ma una coalizione a guida saudita, armata da americani e inglesi- impedisce i rifornimenti.
Guerra civile, interessi politici internazionali, popolazione stremata e una carestia devastante. A pensarci bene, è una storia davvero troppo originale perché i nostri mass media abbiano tempo per parlarne.
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