Diritti / Opinioni
L’italica teatralità del decreto flussi
La legge costringe chi vuole entrare in Italia per lavoro a illegalità, artifizi e finzioni, esponendolo a gravi forme di sfruttamento. Un problema strutturale. La rubrica di Gianfranco Schiavone
In base alla normativa vigente il governo “predispone ogni tre anni, salva la necessità di un termine più breve, il documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato” (articolo 3 comma 1 del Testo unico sull’immigrazione). Sulla base dei criteri generali individuati nel documento programmatico, con decreto del presidente del Consiglio (attualmente il Dpcm 27 settembre 2023), vengono annualmente definite “le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per lavoro subordinato, anche per esigenze di carattere stagionale, e per lavoro autonomo” (comma 4).
L’attuale Dpcm valido per il triennio 2023/2025 stabilisce dunque le quote di ingresso divise per lavoro subordinato e stagionale, il numero di ingressi suddivisi tra i diversi Paesi d’origine, le quote riservate per settori produttivi, nonché la finestra temporale per la presentazione delle domande (il “click day”).
Il presupposto fattuale per consentire l’ingresso regolare per lavoro, mai sostanzialmente modificato da oltre vent’anni, è dunque che lo straniero, pur vivendo all’estero, disponga già di un contratto con un datore di lavoro che si trova in Italia, il quale nel “click day” (giorno in cui in pochi secondi si bruciano tutte le quote) ha presentato domanda per l’assunzione dello straniero e ha fortunosamente ottenuto l’agognata quota per assumere una persona che, salvo che si tratti di un parente o di una persona con cui aveva precedenti rapporti, non hai mai conosciuto, né ha mai messo alla prova per il lavoro richiesto.
Poiché però, salvo limitati casi di ingressi di persone con alte qualifiche (regolati dalla cosiddetta “carta blu”) nessuno per un lavoro ordinario assume qualcuno che non ha mai conosciuto, che cosa accade nella realtà? Succede che il lavoratore straniero non è affatto all’estero bensì vive già in Italia e lavora in nero per lo stesso datore di lavoro che ne chiede l’assunzione.
Sono state 462.422 le domande inviate dai datori di lavoro nel cosiddetto “click day” 2023 a fronte di 82.705 posti disponibili (Fonte: campagna “Ero straniero. L’umanità che fa bene”)
Il decreto flussi è così una sorta di procedimento di emersione/sanatoria mascherato da una procedura che obbliga il fortunato assegnatario della lotteria a ritornare nel Paese d’origine per prendere il visto di ingresso in Italia. Tale italica teatralità non sempre chiude una storia a lieto fine perché la mascherata emersione può portare a regolarizzare realmente il rapporto di lavoro, ma in casi assai frequenti è solo un’attenuazione del meccanismo di sfruttamento del lavoratore, il quale dovrà in vari modi dimostrare imperitura gratitudine al datore di lavoro che lo ha regolarizzato (come l’accettazione di condizioni di lavoro diverse da quelle contrattuali).
In altri casi, infine, il quadro diviene ben più fosco in quanto lo straniero si trova all’estero, come vuole la norma, ma compra la proposta di lavoro. Al suo ingresso, come evidenziano tutte le inchieste giudiziarie, al posto del lavoro promesso ci sarà una condizione di sfruttamento, anche estremo, fino alla riduzione in schiavitù. Lo straniero è naturalmente spinto ad accettare quasi sempre queste condizioni di violenza perché ha raggiunto parte del suo obiettivo (arrivare in Europa) e confida che il resto si aggiusterà con pazienza.
Ma la vita può prendere una direzione drammatica come è stato per Satnam Singh, ucciso nel giugno di quest’anno da una “condotta disumana e lesiva dei più basilari valori di solidarietà” (così si legge nel decreto del Giudice delle indagini preliminari di Latina). Prima ancora però Singh era già stato stritolato, come molti altri, da una normativa non solo irrazionale ma in sé criminogena in quanto strutturalmente basata su artifizi, illegalità e finzioni alle quali chiunque voglia entrare in Italia per lavoro non può sottrarsi. Su questa base di strutturale illegalità ogni degenerazione diventa possibile. Continuare a non comprenderlo non è più scusabile.
Gianfranco Schiavone è studioso di migrazioni. Già componente del direttivo dell’Asgi, è presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus di Trieste.
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