Terra e cibo / Approfondimento
L’influenza aviaria ad alta patogenicità negli allevamenti del Nord-Est
Dall’ottobre 2021 sono state confermate diverse positività per virus dell’influenza aviaria nel pollame domestico. Registrati a oggi almeno 308 focolai in allevamenti e oltre 18 milioni di animali abbattuti. Colpite in particolare Lombardia e Veneto. Il punto della situazione, anche in Europa, e l’analisi della filiera intensiva
Una nuova epidemia di influenza aviaria ad alta patogenicità (Hpai), iniziata nell’autunno 2021, sta interessando diversi Paesi europei tra cui l’Italia, colpendo anche gli allevamenti di pollame del Veneto e della Lombardia e causando gravi danni alla filiera. Secondo le informazioni più recenti risalenti al 18 gennaio, nel Nord-Est del nostro Paese sono stati registrati almeno 308 focolai in allevamenti che hanno portato all’abbattimento, al 20 gennaio, di oltre 18 milioni di animali.
La diffusione della malattia non si limita all’Italia ma riguarda l’intera Europa: sono particolarmente interessate le zone con una elevata concentrazione di allevamenti o di specie selvatiche. Il contagio, infatti, non è limitato solo agli animali da allevamento: secondo gli esperti dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie (Izsve), questo può costituire un pericolo per la biodiversità. “Tutti gli uccelli sono suscettibili all’infezione da virus influenzali -conferma ad Altreconomia Calogero Terregino, dirigente veterinario dell’Izsve nonché responsabile del Centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria e la malattia di Newcastle e, dal 2019, del Laboratorio di referenza europeo (Eurl) per l’influenza aviaria e la malattia di Newcastle, entrambi con sede presso l’Istituto-. È possibile che le ripercussioni di questa malattia in popolazioni di specie a rischio particolarmente sensibili possano essere anche molto pesanti”.
I primi casi sono stati segnalati all’Izsve a metà ottobre 2021 in allevamenti di pollame dell’Est Europa per poi diffondersi nei mesi successivi al resto del continente. In Italia i focolai sono stati segnalati a partire dal 18 ottobre e hanno raggiunto la massima estensione a novembre dello stesso anno diffondendosi in Veneto, nelle province di Padova, Vicenza, Rovigo, Verona, per poi raggiungere la Lombardia, a Mantova e a Brescia. La maggior parte dei virus sono stati identificati come appartenenti al “sottotipo H5N1”. Al momento della stesura dell’articolo la gran parte dei focolai sarebbe stata estinta e secondo l’Izsve “possiamo affermare che le misure adottate si stanno rilevando efficaci e che a oggi la situazione sia in miglioramento”. Nel resto d’Europa sono state confermate nuove positività nei confronti dell’influenza aviaria ad alta patogenicità in volatili selvatici e nel pollame domestico in Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca, Svezia, Ucraina, Bosnia Erzegovina, Ungheria, Norvegia, Francia, Romania, Belgio, Bulgaria, Croazia, Slovacchia, Svizzera, Austria, Lussemburgo, Portogallo, Irlanda del Nord, Grecia, Slovenia, Spagna e Lettonia. “Non esistono collegamenti diretti o funzionali tra i casi nel pollame in Italia e quelli di altri Paesi europei -precisa l’Izsve-. In tutti i casi i virus sono stati introdotti (ma non diffusi, ndr) da uccelli selvatici migratori svernanti in Europa”.
Anche se non costituirebbe al momento una minaccia diretta alla salute umana, l’aviaria ha causato un grave danno all’industria avicola italiana, uno dei principali settori della zootecnica e l’unico completamente autonomo e quindi non dipendente dall’importazione di animali o prodotti lavorati dall’estero (la filiera avicola è l’unica tra quelle zootecniche ad avere un tasso di autoapprovvigionamento superiore al 100%, si veda sul punto il nostro dossier “Le debolezze della carne”).
La produzione di pollame in Italia rappresenta il 9% del mercato europeo. Il nostro Paese è il sesto produttore dopo Polonia, Germania, Francia, Spagna e Turchia. Secondo i dati dell’Istituto di servizi per il mercato agroalimentare (Ismea) relativi al 2020 in Italia vi sarebbero 9.000 allevamenti avicoli per un totale di 137 milioni di capi: il 48% sono polli destinati al consumo di carne, 37% galline ovaiole, il 7% tacchini e 8% altre specie (come faraone, piccioni od oche). La maggior parte delle strutture, specialmente quelle industriali, si concentrano nel Nord-Est in particolare in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. In Veneto sono presenti più di 42 milioni di animali e il 25% degli allevamenti, in Lombardia 24,5 milioni di capi e il 13% degli allevamenti, 22,6 milioni in Emilia-Romagna dove risiedono il 9% delle strutture.
Ismea ricorda che la produzione del Nord Italia segue logiche industriali con numero elevato di allevamenti anche di grandi dimensioni. Appare quindi evidente, e Ismea lo afferma nella sua analisi sulle criticità della filiera pubblicato nelle schede di settore 2021, come una simile concentrazione sia di infrastrutture sia di capi all’interno dello stesso capannone possa costituire un terreno fertile per la diffusione di epidemie influenzali e altre patogenicità. Altreconomia ha chiesto alle principali industrie del settore -Amadori, Veronesi, Fileni e Monteverde- riscontri in merito al numero di casi e di animali abbattuti nei loro allevamenti, così come a misure di prevenzione adottate, ma queste hanno rifiutato. Secondo l’ufficio stampa del Gruppo Veronesi, ad esempio, “trattandosi di un tema ampio e strutturale afferente al settore, l’interlocutore più corretto è la nostra associazione di categoria Unaitalia”.
Le cause dell’epidemia sono molteplici: in una circolare del ministero della Salute datata 19 dicembre 2021 e firmata da Luigi Ruocco, direttore dell’Ufficio 3 presso la Direzione generale della sanità animale e dei farmaci veterinari, si afferma che “da un lato è ormai innegabile l’introduzione del virus […] dal settore selvatico” ma allo stesso tempo “è anche vero che le intime connessioni logistiche e organizzative della filiera, l’elevata densità zootecnica del territorio, la persistenza in alcuni casi di debolezze sul fronte delle biosicurezze (sia strutturali ma forse ancor più a livello gestionale) […] ne hanno rallentato l’estinzione […]”. Contattato da Altreconomia per chiarimenti sulla circolare, il ministero ha delegato le risposte all’Izsve.
A proposito della “elevata densità zootecnica”, il dottor Terregino chiarisce che “tutte le aree con numerosi allevamenti avicoli molto ravvicinati (nelle province di Verona, Padova, Mantova e Brescia) hanno questa caratteristica che facilita la diffusione del virus da un allevamento all’altro”. In particolare i dispositivi di “ventilazione forzata” che consentono un ricambio dell’aria nei capannoni, di recente installati per motivi di benessere animale, sarebbero una fonte di contagio in quanto “insieme all’aria sono espulse anche particelle virali che possono infettare altri allevamenti se a poche centinaia di metri l’uno dall’altro”. Un altro fattore di vulnerabilità sono, sempre secondo Terregino, le “condivisioni tra diverse aziende di mangimifici, incubatoi, macelli che sono molto funzionali dal punto di vista economico ma moltiplicano i contatti a rischio”. Infine nonostante le rigide norme di sicurezza che sono state prese per contenere il virus, “le sue caratteristiche di altissima diffusibilità impongono un ulteriore salto di qualità nella biosicurezza, in particolare sulle misure tese a impedirne l’ingresso tramite materiale contaminato (automezzi, attrezzature, calzature) e i contatti con gli uccelli selvatici”. Le risposte dell’Istituto mostrano come la filiera italiana fosse vulnerabile alla diffusione dell’epidemia.
I rischi per la salute sarebbero però molto bassi, secondo il ministero della Salute, infatti, non è possibile un contagio dovuto alla manipolazione o al consumo di prodotti avicoli se adeguatamente cotti. Sono invece maggiormente soggetti gli operatori legati alla filiera che possono venire a stretto contatto con animali infetti e per cui è prevista una sorveglianza speciale da parte delle Asl locali. Come tutti i virus influenzali anche l’aviaria può in rari casi effettuare un cosiddetto “salto di specie” e trasformarsi in una malattia umana ma la probabilità è considerata bassa. Più grave è la minaccia che l’epidemia costituisce per gli animali selvatici. Per la filiera i danni economici dovuti sia all’isolamento e al rallentamento delle operazioni sia all’abbattimento degli animali infetti sono notevoli e stimati nell’ordine di decine di milioni di euro. Unaitalia, rispondendo alle domande di Altreconomia, ha sostenuto che le procedure di sicurezza prevedono che “tutti gli animali che contraggono il virus, inclusi gli asintomatici, e i potenzialmente esposti, vengono abbattuti ed esclusi dal ciclo produttivo”. Confagricoltura ha chiesto, tra le altre forme di ristoro, anche la “sospensione delle rate dei finanziamenti in scadenza e consolidamento e trasformazione a medio-lungo termine delle esposizioni delle scadenze bancarie”.
La filiera avicola italiana a causa delle sue dimensioni, della elevata densità degli allevamenti e della loro vicinanza a corsi d’acqua e habitat di uccelli migratori è vulnerabile alla diffusione di malattie come l’aviaria. Questo può costituire un fattore di rischio sia per gli operatori della filiera sia per le popolazioni di uccelli selvatici. Secondo la Lega anti vivisezione (Lav) è tempo “di ripensare radicalmente il nostro sistema di produzione e consumo agroalimentare. Mettiamo fine ai finanziamenti pubblici a un sistema insostenibile e crudele”.
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