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Cultura e scienza / Intervista

Libertà, diritti, ecologia. L’eredità civile di Pierangelo Bertoli

Pierangelo Bertoli è nato a Sassuolo (MO) il 5 novembre 1942, figlio di operai, ha pubblicato il suo primo album “Rosso colore dell’amore” nel 1974 © Ercole Buoso

Sono passati vent’anni dalla scomparsa del visionario cantautore modenese che nell’arco della sua carriera ha inciso più di 200 brani. Con le sue canzoni ha denunciato le ingiustizie lasciando però sempre spazio alla speranza

Tratto da Altreconomia 252 — Ottobre 2022

Lo spirito delle canzoni di mio padre sta in quell’‘eppure’ prima di ‘il vento soffia ancora’. La speranza c’è sempre, l’aria continua a soffiare da dietro il monte: anche i ‘dimenticati dal mondo’ possono sollevare la testa e guardare il monte, le difficoltà, e vedere spuntare la luna, fino ad arrivare all’autodeterminazione”. A vent’anni da quel 7 ottobre 2002 in cui Pierangelo Bertoli, all’età di 59 anni, moriva al Policlinico di Modena, il figlio Alberto, anche lui cantautore, ricorda il padre sottolineandone lo sguardo positivo sul mondo.

Uno stile di affrontare la vita che lo stesso Bertoli, in un’intervista rilasciata a Enzo Biagi il 9 gennaio 1984, raccontava così: “Io tendo a vedere le cose come positive o negative, non come tristi e allegre. Tendo a far diventare tutto positivo. Per me la vita è interessante, curiosa. E la vita sono soprattutto le persone”. E proprio l’incontro con le persone ha cambiato la vita del cantautore nato a Sassuolo il 5 novembre 1942: incontri spesso “quotidiani”, quasi casuali, che muovevano Bertoli e la sua voglia di dare voce alle storie di ingiustizia. Tanto che una delle prime canzoni scritte dal titolo “Non finirà” -incisa poi nel 1979- raccontava la vicenda di una ragazza di 15 anni che viveva nel piano di sopra della casa popolare in cui abitava un giovanissimo Bertoli, figlio di operai, ed era obbligata a prostituirsi dallo zio. “In quella canzone, che tra l’altro ha eseguito anche durante il suo ultimo concerto, sottolinea come la cosa che a lui pesava di più era come le persone guardavano quella ragazza. La chiamavano ‘quella là’ -spiega ancora Alberto Bertoli-. Lui non sopportava e non capiva perché, se qualcuno vive già una condizione difficile, deve soffrire anche per il dito puntato di chi guarda e giudica”.

“A Domenica In i cameraman della Rai dissero che l’avrebbero tagliato perché non potevano proporre una persona in carrozzina: si arrabbiò tantissimo” – Marco Dieci

Un vissuto che inevitabilmente nasce anche dalla sua esperienza personale. A soli nove mesi fu colpito da una grave forma di poliomielite che lo privò della funzionalità degli arti inferiori: per tutta la vita dovette vivere e muoversi su una carrozzina. Una condizione che lo fece diventare una figura di riferimento nella lotta per la parità dei diritti delle persone con disabilità. È celebre la pubblicità per l’abbattimento delle barriere architettoniche con in sottofondo la canzone “A muso duro” in cui Bertoli vede una persona dolorante distesa a terra e tenta di entrare in una cabina telefonica, non riuscendovi a causa della larghezza della sua carrozzina. Ma anche su questo tema, Bertoli portava avanti una lotta contro lo sguardo pietistico altrui. “Voglio sgomberare il campo da equivoci -sottolinea Alberto- lui non ha mai parlato in modo esplicito e diretto di disabilità: non ne aveva bisogno perché il modo più forte di far passare il messaggio che la sua era una condizione differente ma non per questo anormale era l’essere quel che era senza nessun timore”. Lo stesso Pierangelo nell’intervista con Biagi, ricordava come “la maggior parte delle difficoltà sono nella testa e nella cultura delle persone più che nella realtà. Credo che ci siano delle difficoltà oggettive, per alcuni, ma i problemi stanno principalmente nella cultura cattolica che è il pietismo -argomentava-. Tutti abbiamo degli handicap ed è la stessa cosa. Rispetto ad altri aspetti sarò io ad aiutare te: uno scambio tra persone sereno e paritario”.

“Quando decise di fare sul serio con la musica, era il 1975, parlammo di questo aspetto e lui fu molto chiaro -racconta Marco Dieci, amico e musicista al pianoforte, chitarra e armonica a bocca a fianco di Pierangelo Bertoli per tutta la vita-. Mi disse: ‘Io sono così, se mi accettano bene, se no amen. Ma io devo fare il cantautore e io sono questo’. Una decina di anni dopo andammo a Domenica In a presentare l’ultimo disco e i cameraman della Rai dissero che l’avrebbero tagliato perché non potevano proporre una persona in carrozzina: si arrabbiò tantissimo, tanto che qualche anno dopo a Sanremo pretese di essere inquadrato per intero”. Per Dieci il segreto di Bertoli era “nel suo carisma, in una forza innata che quasi ci faceva dimenticare la sua disabilità: ormai era normale scendere dalla macchina e portarlo in spalle al bar, così come sul palco”. Per il figlio Alberto il vivere senza il ritornello del “povero me e il piagnisteo autoreferenziale” aveva radici profonde. “Vivere in questo modo, deriva dal fatto che le sue convinzioni le avesse tratte dal punto di vista filosofico e civico più che politico, perché i partiti gli stavano stretti, come tutte le cose che sono incasellate. Lui usava un lessico molto lirico, cozzando a mio parere con la visione del cantautore della strada che gli era stata data dagli altri. Il tema fondamentale di mio padre erano i diritti, che lui spesso chiama libertà. Il testo della canzone ‘La luna sotto casa’ finisce con ‘Io ho una cosa grande/lotto per la libertà’: in questa frase la parola libertà racchiude il tema dei diritti. Io sto meglio, se stai meglio anche tu. Ognuno ha la sua dimensione senza che ci sia il moralizzatore di turno che venga a insegnarti come vivere”. Essere quel che si è, diventa un mantra da cui non discostarsi.

“Sceglieva accordi in maggiore, le classiche sonorità che solitamente trasmettono serenità e positività agli ascoltatori. Il ‘vestito’ che metteva ai suoi pezzi faceva la differenza”
– Moreno Bartolacelli

“Lo stesso brano ‘A muso duro’ nasce da una diatriba con il direttore artistico della casa discografica che lo spingeva a scrivere brani più in linea con il tempo -spiega Moreno Bartolacelli, tastierista e fisarmonicista di Bertoli dal 1994 al 2002-.Mi disse: ‘Piuttosto saremo in pochi ai concerti ma io voglio essere quello che sono e andare avanti per la mia strada’. E la sua strada, a mio avviso non andava nemmeno controcorrente. Era genuino, l’importante era che gli piacesse quello che stava facendo”. Le influenze di Bob Dylan, le “differenze” da figure come Massimo Ranieri, contemporaneo di Bertoli ma distante per sonorità e contenuti dei brani. Brani che per Bartolacelli hanno la particolarità di trasmettere positività nonostante i temi di denuncia che contengono. “Anche dal punto di vista musicale è qualcosa che ha sempre contraddistinto Pierangelo -aggiunge-. Sceglieva accordi in maggiore, le classiche sonorità che solitamente trasmettono serenità e positività agli ascoltatori. Il ‘vestito’ che metteva ai suoi pezzi faceva la differenza e lo diceva sempre. Perché fare armonizzazioni tristi?”.

E poi, l’istinto che superava le partiture: “A volte aveva la foga di sfruttare il tempo del brano per dire tutte le cose che voleva trasmettere e quindi non aveva tempo di finire la battuta di 4/4 e la trasformava in 2/4. Per i musicisti era sempre un imprevisto, ma rendeva speciale la sua musica”. Quel che è certo è che negli oltre 200 brani registrati, Bertoli ha stretto collaborazioni con i più importanti musicisti e arrangiatori del tempo che si stupivano per la semplicità con cui venivano “accolti” nel gruppo: “Quando andavamo a cena in tournée e i musicisti scoprivano che si sarebbero seduti al tavolo con Pierangelo rimanevano sconvolti -racconta Dieci-. Lui era così, un amico, una persona molto presente e di compagnia nella vita di chi si avvicinava a lui”. Che cosa rimane vent’anni dopo la morte di Bertoli? Per Alberto è difficile immaginare cosa direbbe suo padre del mondo di oggi: “Quando mi si chiede che cosa avrebbe pensato mio padre io dico sempre che è una violenza -spiega-. Non è così semplice: nel corso degli anni si cambia a seconda del contesto e solo uno stupido rimarrebbe uguale. Forse però posso dire che cosa penserebbe dei cantautori: già lo diceva negli anni Novanta. Non c’è scritto da nessuna parte che ci debbano essere per sempre dei cantautori, è una forma d’arte che appartiene a un certo periodo. Era una visione dinamica della musica: di certo non sopportava chi stravolge il proprio modo di essere per adattarsi ai tempi che vive”.

Quel che è certo è che restano i brani di denuncia e di lotta per i diritti. “Rileggendo i suoi testi è facile capire quanto fosse visionario -conclude Bartolacelli-. ‘Eppure soffia’, scritta nel 1972 parla del cambiamento climatico ed è una canzone che parla di ecologia. Per chi non c’era è difficile raccontarlo: un po’ lo stesso tentativo di chi prova a descrivere un quadro visto in un museo ad un’altra persona. Serviva viverlo ma i suoi testi restano. E hanno ancora tanto da dire, con la stessa forza e visione di cinquant’anni fa”.

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