Altre Economie
Liberiamo la diversità
I campi sono occupati da poche varietà di sementi. Contro il rischio omologazione e controllo “multinazionale”, la risposta che arriva dal basso
“Aureo”, “Normanno” e “Svevo” li abbiamo ogni giorno nel piatto. Sono i nomi di tre varietà di grano duro sviluppate nei laboratori di Produttori sementi Bologna. Sono, soprattutto, il frutto della collaborazione tra l’azienda sementiera e Barilla: i semi “selezionati” diventano cereali e quindi pasta.
“Svevo -ad esempio- è una varietà selezionata per l’elevatissima attitudine all’accumulo di proteine e per l’elevato indice di giallo della semola” spiega il sito dell’azienda bolognese, che è un’impresa strumentale controllata dalla Fondazione Cassa di risparmio di Bologna (che è anche azionista, con il 2,7%, di Intesa Sanpaolo).
Tra la semina e la confezione, ci sono i campi. Ma anche questo non è un problema: da sei anni, Produttori sementi Bologna e Barilla sono partner del progetto “Grano duro di alta qualità in Emilia-Romagna”. L’accordo è stato rinnovato nel dicembre 2011, coinvolge la Regione ed alcune cooperative e consorzi tra aziende agricole, e prevede la produzione di 90mila tonnellate di grano duro, che vengono coltivati su 15mila ettari di terra.
Significa che un quarto di tutto il grano duro prodotto in Emilia-Romagna è frutto di una manciata di semi diversi. “La scelta varietale, in pratica, viene fatta dalla Barilla, sulla base delle esigenze di un processo di trasformazione industriale. I numeri, infatti, creano uniformità: a grosse partite di sementi tutte uguali corrispondono campi omogenei” spiega Riccardo Bocci, agronomo e coordinatore della Rete semi rurali, che in Italia riunisce 18 realtà che si battono per difendere “la diversità nei campi”.
E Let’s Liberate Diversity, “è tempo di liberare la diversità”, è anche lo slogan scelto da organizzazioni di tutta Europa che dal 2005, ogni anno, s’incontrano per mettere in rete le proprie “resistenze”.
Nell’ultimo appuntamento, dal 9 all’11 marzo 2012 a Strathpeffer, nelle Highland scozzesi, si è discusso della nuova legislazione sementiera dell’Ue, un Regolamento la cui bozza è attesa entro la fine del 2012, dell’accordo sulla proprietà intellettuale (Trips) dell’Organizzazione mondiale del commercio; del Trattato internazionale Fao sulle risorse genetiche per l’alimentazione e l’agricoltura e del ruolo dell’Upov. Dietro questa sigla sconosciuta c’è l’International Union for the Protection of New Varieties of Plants, un organismo intergovernativo che ha sede in Svizzera e -racconta Bocci- “rappresenta una sorta di ‘standard internazionale’ per la legislazione sementiera, nonostante sia una realtà poco incline alla partecipazione”. Basti pensare che Via Campesina, la più grande organizzazione contadina mondiale, ci ha messo due anni per ottenere lo status di “osservatore”. “In questo momento dobbiamo far pressioni su Bruxelles: se non riusciamo a far ‘riconoscere’ la nostra posizione nel prossimo anno e mezzo, in cui verrà discusso e approvato il nuovo Regolamento, allora avremmo perso vent’anni” dice Bocci. È questo il momento di bloccare la logica dei brevetti, delle varietà “selezionate” ad uso e consumo di soggetti privati. “È una posizione ‘conservatrice’ -racconta il coordinatore di Rete Semi Rurali-: pensa, ad esempio, che le varietà sviluppate da Produttori Sementi Bologna in collaborazione con Barilla sono venduti ‘in esclusiva’ all’azienda pastaria”. Di segno opposto la posizione di Let’s Liberate Diversity: “L’Unione europea deve riconoscere che i contadini hanno dato, danno e continueranno a dare un contributo essenziale alla conservazione e allo sviluppo della biodiversità in agricoltura”.
Da una parte c’è l’innovazione figlia di un laboratorio, dall’altra quella che nasce nei campi. “Nel processo di revisione della Politica agricola comunitaria, l’Ue si è resa conto che il modello di agricoltura estensiva promosso in tutto il mondo dagli anni 60 non è l’unico -spiega Bocci-: nella bozza del documento, infatti, si parla di obiettivi quali la conservazione della biodiversità e dell’esigenza di un’agricoltura più vicina all’ambiente” (vedi Ae 135).
Quando non è permesso ai contadini di produrre e scambiare semi, in realtà si attacca la biodiversità. Un esempio significativo riguarda le sementi per l’agricoltura biologica: Aiab, l’Associazione italiana per l’agricoltura biologica, ha analizzato un campione di 248 aziende: il 51% ha dichiarato di utilizzare sementi autoprodotte in azienda; il 3% da altri agricoltori. Ma il 44% si rivolge al mercato, dove “la maggioranza delle sementi disponibili, almeno sul mercato europeo, è di variabili commerciali mainstream” come spiega l’Ifoam, la Federazione internazionale dei movimenti per l’agricoltura biologica, in un documento che evidenzia la posizione del mondo del bio in merito alle sementi e al nuovo Regolamento Ue: “Il sistema attuale non crea alcun incentivo per la riproduzione biologica”. La posizione di Ifoam è chiara: “Il giudizio finale su che cosa sia una ‘varietà appropriata’ deve restare sempre appannaggio del singolo contadino”.
Il trattato Fao sulle risorse genetiche per l’alimentazione e l’agricoltura riconosce che il modello sementiero orizzontale e diffuso, quello promosso in Italia da Rete semi rurali, è proiettato verso il futuro. Ed è un modello capace di dar risposte anche di fronte alla crisi. All’appuntamento con Let’s Liberate Diversity, in Scozia, ha preso parte anche Antonis Breskas, un attivista di Peliti (www.peliti.gr), un organizzazione nata in Grecia nel 1995. Con sé, portava i manifesti del dodicesimo Festival pan-ellenico per lo scambio delle varietà locali, che si tiene il 21 aprile a Mesochori, nel Nord-est del Paese. “Lo scorso anno sono arrivate 5mila persone. Di fronte alla situazione del Paese, stiamo riscontrando un maggiore interesse nei confronti delle nostre sementi -ci ha raccontato-. La popolazione è forzata a praticare stili di vita alternativi. Oltre all’emigrazione all’estero, sono in molti quelli che ritornano in campagna: per queste persone, la sovranità alimentare diventa un obiettivo”. Peliti distribuisce gratuitamente le sementi: l’obiettivo è la disseminazione delle varietà locali. Insieme al Festival, che si ripete ogni anno dal 1999, Peliti pubblica un “catalogo” delle varietà (circa 1.200) e dei produttori associati, che sono 220 in tutto il Paese. “La legislazione sementiera sta cambiando, come tutto in Grecia: vorrebbero obbligare a brevettare tutte le varietà -conclude Antonis-. A quel punto, anche lo scambio dei semi verrebbe proibito”. —
Scambio, politico
Il “Marzuolo” ha preso il nome dalle varietà tradizionali di grano che si seminano in marzo: è una giornata di scambio di sementi, marze e lieviti autoprodotti organizzata il 4 marzo a Rosignano (Li) dalla Rete semi rurali insieme ai propri soci Consorzio della Quarantina, Associazione La Fierucola e Civiltà Contadina. Il 17 e 18 marzo, i custodi della biodiversità hanno fatto tappa a Vicenza, presso il presidio No Dal Molin, che insieme all’Associazione veneta per l’agricoltura biologica ha organizzato un convegno su “Cereali antichi e selezione partecipativa” e uno scambio dei semi, presso l’azienda agricola Ca’ dell’Agata di Zugliano. “Lo scambio diventa un atto politico e un ‘sistema di relazioni’ -afferma Riccardo Franciolini, uno degli animatori della Rete semi rurali-: per questo gli incontri vengono organizzati nelle piazze o spazi pubblici. Sono sempre eventi aperti alla comunità, e il numero delle iniziative, concentrate nei primi mesi dell’anno, quando ci si prepara alle nuove semine, è in aumento. L’obiettivo è la diffusione dell’agrobiodiversità, e come ha sempre fatto è l’uomo a spostare le sementi”. Non creare un mercato, ma valorizzare “sistemi informali che garantiscano la continuità della tradizione -conclude Riccardo-”. I semi si evolvono, perché sono liberi di adattarsi ai differenti terreni ed ecosistemi. È innovazione, ed è il contrario dell’omologazione imposta dai brevetti.
Semi liberi, manca solo il decreto attuativo
Gli agricoltori italiani possono vendere piccole quantità di sementi da conservazione, ma solo sulla carta. “Due anni fa -spiega Riccardo Bocci, coordinatore della Rete semi rurali-, il nostro Paese ha riconosciuto nei loro confronti un diritto che prima era appannaggio solo delle ditte sementiere”. Da allora, però, manca un decreto applicativo: a ottobre 2011, insieme alle ong Acra (www.acra.it) e Crocevia (www.croceviaterra.it), Rete semi rurali ha promosso per questo una campagna d’informazione e di pressione sul ministero dell’Agricoltura. Si chiama “Semi locali, semi legali” (vedi Ae 132). “Dal ministero non abbiamo ancora ricevuto nessuna risposta” sottolinea Bocci, che per questo motivo a metà febbraio 2012 ha indirizzato una lettera al ministro Mario Catania. “Chiediamo un incontro e un confronto”, a partire da un’articolata proposta di decreto (in pdf, sul sito di Ae).