Diritti / Intervista
“Libere per tutte”, pratiche di resistenza al femminile nell’Italia di oggi
Il sociologo Marco Omizzolo racconta in un recente saggio le storie di tre donne che si sono ribellate a familiari violenti e allo sfruttamento lavorativo, sfidando apertamente un sistema razzista e maschilista. “Dobbiamo ripartire dal margine, viverlo e trasformarlo in un campo di lotta”
Sottrarsi a una famiglia violenta e patriarcale, conquistare la propria autonomia in un Paese ancora razzista e sessista, spezzare le catene della solitudine e della dipendenza. La resistenza delle donne prende diverse forme nell’Italia di oggi, pur mantenendo un minimo comune denominatore: il coraggio di lottare e ribellarsi contro un sistema oppressivo e discriminatorio, per relazioni più paritarie, per società più inclusive, per rapporti umani meno spietati. Il nuovo libro del sociologo Marco Omizzolo, “Libere per tutte” (Fondazione Feltrinelli), nelle librerie dal 22 luglio, affronta il tema dell’intersezionalità come simultaneità di diverse forme di oppressione.
“L’intersezionalità prevede la polisemia e il policentrismo del soggetto -spiega ad Altreconomia Marco Omizzolo, responsabile scientifico della cooperativa In Migrazione, presidente del centro studi Tempi Moderni e ricercatore dell’istituto Eurispes-. Le donne raccontate nel libro si trovano immerse in persistenti stati di maschilismo, razzismo, discriminazione, violenza. Condizioni di sfruttamento ed emarginazione che, nella società contemporanea, si intersecano nei sistemi istituzionali, politici e sociali: a farne le spese sono soprattutto loro, le donne, i loro corpi e la loro dimensione esistenziale, lavorativa, affettiva e genitoriale”.
Le tre storie raccontate in questo volume vogliono rappresentare questa poliedricità. La prima è la vicenda di Italia, donna di origine somala nata nel nostro Paese. Estremamente acculturata, laureata con lode, il suo sogno è fare la giornalista. Ma alla fine si trova a lavorare come addetta alle pulizie in una grande azienda milanese: il sistema manageriale razzista e sessista in cui è inserita la considera come una povera migrante, senza dare valore alle sue competenze, la sfrutta assegnandole mansioni molto faticose e obbligandola a fare straordinari non pagati. Lei non molla, e in più presta soccorso alle sue compagne di lavoro e le sostiene. “La sua forma di resistenza è quella di non farsi mai vedere stanca davanti ai suoi superiori, per non dare l’idea di essere stata piegata -racconta Omizzolo-. Italia ha avuto il coraggio di guardare negli occhi il suo sfruttatore, anche nei momenti più duri, mantenendo intatta la sua dignità. Alla fine decide di emigrare in Francia, mantenendo comunque la speranza di poter tornare un giorno, quando anche altre donne come lei saranno pronte a ribellarsi e combattere”.
Poi c’è Manpreet, indiana che lavora come bracciante precaria nell’Agro Pontino, con quattro figli e un marito violento e tossicodipendente. Un giorno Manpreet subisce un grave incidente sul lavoro cadendo da un’impalcatura e rischia la vita. Capisce allora che non può rinunciare alla lotta: sa che non può permettersi di denunciare il suo padrone, per continuare a mantenere la famiglia, e allora la sua battaglia diventa quella contro il marito violento, per amore proprio e dei suoi figli. “Manpreet ha il coraggio di denunciarlo e di mandarlo in carcere -racconta Omizzolo-. Un atto rivoluzionario estremo, per una donna non acculturata, migrante, sola, come lei. Un gesto che può diventare d’esempio per tante altre”.
Infine c’è la storia di Anna, madre e moglie apparentemente di successo, giovane, bella e colta, figlia di una famiglia benestante dell’alta borghesia romana. Anna è sposata con un uomo ricco e affascinante, ma che la tradisce ed è violento. Dopo il divorzio dei suoi genitori, la donna diventa dipendente dal gioco d’azzardo e per ripagare i suoi debiti finisce per prostituirsi nei bar della periferia romana. Seguono disturbi alimentari, alcolismo, fino a diventare vittima di strozzini vicini al clan dei Casamonica. Da dove ricominciare? “Questa vicenda ci mostra come anche chi appartiene a una classe agiata può precipitare in una condizione di emarginazione -sottolinea il sociologo-. La pandemia per Anna si trasforma in un’opportunità per interrompere la dipendenza dal gioco: la donna si fa seguire da una terapeuta, smette di prostituirsi e decide di divorziare dal marito. Ma la società continua ad etichettarla come una prostituta, come se il marchio del fallimento fosse per sempre”.
Le protagoniste delle tre storie appartengono a classi sociali differenti e subiscono forme diverse di sfruttamento, che però interagiscono fra loro sia a livello soggettivo sia a livello di gruppi e istituzioni: si tratta di storie complesse, dove i piani si ribaltano continuazione. “Non sono solo storie di sfruttamento, ma parlano anche di razzismo, violenza domestica, dipendenza -conclude Omizzolo-. Esiste il singolo e poi esiste la società: a volte il sociale può essere non la risposta ma la sentenza definitiva di condanna, non la via di uscita ma la colata di cemento che ti immobilizza. Gli stereotipi cristallizzano gli individui e non permettono loro di evolvere. La società diventa così una gabbia d’acciaio”.
E allora che si fa? La risposta che trova Omizzolo è di ripartire dal margine, viverlo e trasformarlo in un campo di lotta. “Se consideriamo il margine solo come un segno che esprime disperazione, veniamo penetrati da uno scetticismo assoluto. I margini possono invece diventare luoghi di resistenza: contro il maschio dominatore e violento, contro il padrone, contro uno Stato che promuove norme e procedure che producono discriminazione. È dal margine che si può ripartire per cambiare lo stato delle cose e costruire percorsi di emancipazione. Camus ha scritto ‘L’uomo in rivolta’, io parlerei invece di donne in rivolta”.
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