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L’Europa, culla del Fair Trade
La filiera corta e il "km equo", le attività di advocacy e il commercio equo come modello di cooperazione e sviluppo per l’Unione europea. A poche ora dalla inaugurazione di "Milano Fair City" (la fiera in programma a Milano fino a domenica 31 maggio), un’intervista a Giorgio Dal Fiume, presidente della World Fair Trade Organization Europe
L’Europa è la culla del Fair Trade: come e quanto è diffuso?
È presente in quasi tutti i Paesi dell’Unione. La WFTO ha membri in ben 16 Paesi europei. Quella del Fair Trade in Europa è una crescita qualitativa e quantitativa se si considera che negli che negli ultimi 10 anni questo segmento di mercato è riuscito ad approdare anche nell’Est Europa, e che le vendite sono cresciute in maniera esponenziale dappertutto. Gli ultimi dati a nostra disposizione, riferiti al 2013, ci dicono che le vendite dei prodotti a marchio FLO (Fairtrade Labelling Organization) sono aumentate del 21% in Austria, del 9% in Belgio, del 13% in Danimarca, del 3% in Francia, del 23% in Germania, del 17% in Italia, del 6% in Olanda, del 9% in Norvegia, del 6% in Spagna e Portogallo, del 29% in Svezia, in Repubblica Ceca il risultato è stato eccezionale con un aumento del 142%.
Questi risultati sono stati raggiunti anche grazie a una costante crescita delle botteghe del mondo, che attualmente sono circa 3mila in tutto il territorio dell’Unione, con una diffusione capillare nei Paesi del Centro-Nord Europa.
Quali sono secondo lei le principali tappe dello sviluppo del commercio equo in Europa?
Sono tante, e distribuite nell’arco di oltre mezzo secolo di storia a partire dal 1964, l’anno in cui i pionieri del Fair Trade parteciparono alla conferenza UNCTAD (l’Agenzia delle Nazioni Unite per Commercio e Sviluppo), a Ginevra, usando lo slogan “Trade not aid” contro i Paesi industrializzati. Rispetto ai temi dello sviluppo e degli squilibri Nord/Sud, infatti, questi tendevano a ignorare problemi fondamentali come i prezzi dei prodotti o l’accesso dei Paesi del Sud ai mercati, preferendo offrire loro “aiuti allo sviluppo” e prestiti. Il commercio equo europeo ha mantenuto questa sua anima politica, centrata sulla critica alle regole del commercio internazionale, e ha dimostrato che è possibile fare economia rispettando criteri di equità sociale.
Oltre trent’anni dopo, nel 1997, nasce per iniziativa di vari certificatori Fair Trade nazionali, già operativi da alcuni anni in vari paesi europei, la Fairtrade International, che controlla l’ente di certificazione FLO (Fairtrade Labelling Organization), il principale certificatore di Fair Trade.
Contemporaneamente a Garstang, in Inghilterra, nasce la prima “Città Equa Solidale”, il primo passo che darà vita alla Fair Trade Town Campaign, attiva in 1.500 città e in ben 70 Paesi, ma in particolare in Europa, che ne costituisce ancora la guida principale.
Nel 2004 nasce (promosso da WFTO e Fairtrade International) il Fair Trade Advocacy Office, che si occupa delle attività di advocacy e campagne per il Fair Trade europeo e non solo, e di rappresentare il Fair trade nelle sedi dell’UE. Tre anni dopo, nel 2007, le organizzazioni di Fair Trade europee creano WFTO-Europa quale associazione dotata di un proprio statuto e propri organi di rappresentanza, formalizzando quello che fino ad allora era una semplice riunione che si svolgeva durante le Assemblee mondiali di WFTO. Infine nel 2014 si avvia il sistema di certificazione delle organizzazioni promosso da WFTO, diverso e complementare rispetto a quello attuato da FLO.
Come si distinguono i vari Paesi: esistono modelli “nazionali”?
Esistono modelli nazionali che tra di loro presentano alcune differenze sistematiche. Le principali fra queste riguardano il rapporto tra botteghe del mondo ed importatori: in alcuni paesi, come Olanda e Austria, le reti nazionali di botteghe sono molto strutturate, ed hanno criteri in base ai quali riconoscono gli importatori nazionali di Fair Trade. Altre differenze riguardano l’uso della certificazione che è molto diffusa, soprattuto quella Flo, nella maggioranza dei Paesi europei; il coinvolgimento con movimenti sociali attivi sulle tematiche internazionali e le campagne sociali, più presenti nel Sud Europa; la diffusione che varia da Paese a Paese; la tipologia dei lavoratori delle botteghe, che in alcuni Paesi sono solo volontari in altri seguono tendenze alla professionalizzazione.
Quali sono le eccellenze dell’equo e solidale fra i ventotto Paesi membri dell’UE?
Non ci sono dati assoluti, ma gruppi di paesi più virtuosi in alcuni rami del Fair Trade. Penso a Olanda, Belgio, Germania, Austria per diffusione, ruolo e protagonismo delle botteghe, e la presenza di grandi organizzazioni di importazione. L’Inghilterra è prima per diffusione nella grande distribuzione e fatturato di vendite raggiunto. La Svizzera eccelle per percentuali acquisite da alcuni prodotti FT nella grande distribuzione. Italia, Belgio, Germania per il cosiddetto “Domestic Fair Trade”.
L’Italia presenta dati indicativi anche per quel che riguarda la presenza delle botteghe, la loro professionalizzazione e la loro dimensione media: si pensi che alcune tra le botteghe più grandi d’Europa sono italiane. Nel nostro Paese c’è anche un alto livello di unitarietà del movimento e di dialogo, nonché una buona presenza di importatori, tra i quali il secondo al mondo per fatturato.
Il network italiano si distingue anche per la notevole partecipazione alla dimensione internazionale del Fair Trade (WFTO), soprattutto per quanto riguarda il forte interesse alla dimensione sociale e politica del Fair Trade. C’è ancora molto da fare, soprattutto rispetto al Fair Trade del Centro e del Nord Europa che ci batte in quanto a vendite totali e pro-capite, presenza dei prodotti Fair Trade nella grande distribuzione, crescita attuale del Fair Trade e supporto delle istituzioni pubbliche.
Bruxelles è un interlocutore attento riguardo al settore dell’equo e solidale? Esistono politiche europee per tutelarlo e promuoverlo?
Su questo punto siamo di fronte a una situazione controversa. L’UE ha manifestato attenzione al Fair Trade, lo ha riconosciuto come pratica positiva e come interlocutore, e lo ha incluso nella attività finanziabili, ma finora è assolutamente indifferente alla possibilità che i suoi valori, princìpi e proposte sposino le proprie politiche commerciali internazionali. Il commercio dell’Unione è ancora fortemente centrato su un modello neo-liberale che contrasta con l’utilizzo di prodotti Fair Trade negli acquisti pubblici. Si sono perfino intentate azioni legali che poi sono state rigettate portando a riconoscere la possibilità e l’utilità del Fair Trade.
Direi, per rispondere alla domanda, che c’è buon dialogo, anche grazie al notevole lavoro del Fair Trade Advocacy Office, qualche finanziamento effettivamente utile, ma scarse, se non nulle, influenze nella propria politica commerciale.
C’è e si percepisce una dimensione europea del Fair Trade? Se sì quale ruolo può giocare il Fair Trade -anche solo come modello- nelle politiche europee di cooperazione e sviluppo?
C’è certamente una dimensione europea che può essere sintetizzata in: forte attenzione all’attività di advocacy, forte riconoscimento del ruolo delle botteghe, forte tendenza alla professionalizzazione delle organizzazioni Fair Trade e capacità di interlocuzione con la grande distribuzione, attenzione all’economia solidale in generale.
Il Fair Trade sta già giocando un certo ruolo nelle politiche europee di cooperazione allo sviluppo. Prima di tutto perché sta portando l’attenzione allo “sviluppo” invece che all’assistenza, in secondo luogo perché dà priorità all’empowerment delle potenzialità produttive ed ai piccoli produttori locali, infine perché è una rete che continua a favorire lo sviluppo di alleanze e filiere tra produttori del Sud e consumatori e grossisti del Nord.
La grande distribuzione europea, e non solo, ha in qualche modo cercato di far proprie le istanze e le fette di mercato di chi acquista commercio equo, offrendo, oltre a linee di prodotti bio, anche linee di prodotti Fair. Tuttavia le etichette e le certificazioni richiedono uno sforzo di consapevolezza che il consumatore spesso non è in grado di fare. Quali suggerimenti può dare a un consumatore medio europeo per acquistare equo e solidale e far si che buona parte del prezzo pagato rimanga a chi ha prodotto quel bene?
La significativa crescita registrata dalle vendite Fair Trade in epoca di forte crisi come quella attuale è dovuta in gran parte all’aumento di referenze e di vendite fatta dalla grande distribuzione. L’etichetta “equo solidale”, però, da sola non basta, anche se è vero che la sensibilità dei consumatori verso di Fair Trade è in aumento, così come la visibilità dei prodotti equi e solidali anche nella grande distribuzione, dove, però, il rischio di confusione o imitazioni è sempre presente. Per questo la maggioranza della organizzazioni del commercio equo pone grande attenzione alle attività educative o informative rivolte ai consumatori.
Il consiglio al consumatore è fatto di tre parti. Primo: tutelare il proprio interesse di consumatore verificando sempre l’origine dei prodotti che compra, non solo per scegliere Fair Trade, ma per avere consapevolezza del luogo di provenienza dei prodotti che acquista, dato che da ciò dipende in parte la qualità alimentare, la salubrità, il gusto del prodotto. Secondo: tutelare il proprio interesse di cittadino nel cercare prodotti che non siano realizzati in palese contraddizione con i propri valori, il che comporta inevitabilmente di affrontare una serie di domande: ‘che cosa c’è dietro questo prodotto? chi l’ha realizzato?’. Terzo: tutelare la propria salute e sostenibilità economica chiedendosi quanto spende in alimenti, e quanto in altre attività/azioni/prodotti, per ricercare il giusto equilibrio tra i primi e i secondi ed evitare di trovare insostenibili i costi di prodotti alimentari “di qualità”. Questi potrebbero risultare leggermente più alti di altri laddove si consumano cifre ben superiori, e spesso inadeguate, per altri prodotti di consumo corrente (mobilità, comunicazione, abbigliamento, divertimento…).
Quali sono le priorità del WFTO Europa?
Sostenere un network di advocacy valido. Diffondere ed applicare sistema di certificazione WFTO delle organizzazioni Fair Trade. Rappresentare e promuovere all’esterno, in particolare verso l’UE, il Fair Trade. Rafforzare le reti nazionali di Fair Trade, perché siano al contempo di luoghi di autogoverno e promozione, e validi interlocutori a livello internazionale. Promuovere buone prassi per favorire l’accesso al mercato delle organizzazioni Fair Trade in generale e, in particolare, nelle aree dell’UE dove è meno sviluppato. Regolare e sviluppare il Domestic Fair Trade, e creare un’alleanza con l’economia solidale.
Secondo lei ha senso parlare di "Km equo"?
Il Fair Trade costituisce la “filiera corta” della maggioranza dei prodotti che quotidianamente consumiamo e che vengono da fuori Europa, dal cotone al caffè. Quindi il Fair Trade non è affatto in contrasto con il "Km 0". Anche per questo in alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, si è esplicitamente deciso di non importare prodotti freschi dall’estero che siano prodotti anche in Italia.
Secondo me il termine "Km equo" è più chiaro ed inclusivo di "Km 0". La soluzione migliore, secondo me, continua a rimanere “filiera corta”, in quanto, come dimostrato da tutti gli studi che vi si sono dedicati, la distanza percorsa da un prodotto per essere consumato è solo uno dei fattori, e non sempre il più importante o incisivo, che ne determinano l’impatto ambientale. Molto dipende dal mezzo di trasporto e dalle modalità di coltivazione. La denominazione di “filiera” è più appropriata anche perché riguarda non solo i chilometri percorsi, ma anche i passaggi socio-economici che un prodotto deve fare per arrivare da noi.