Economia / Attualità
L’equilibrismo di Intesa Sanpaolo tra Russia e Stati Uniti: contro pace e transizione
Dopo l’invasione dell’Ucraina la banca ha deciso di bloccare il prestito per il mega progetto in Russia Arctic LNG-2. “È tempo che la finanza abbandoni definitivamente l’industria dei combustibili fossili e non solo per mero opportunismo”, denuncia ReCommon, e “Intesa non può più nascondersi dietro il suo greenwashing”
È la tarda serata del 1 marzo, una settimana dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. L’agenzia di stampa Reuters batte la notizia che il prestito di Intesa Sanpaolo e Cassa depositi e prestiti per il megaprogetto Arctic LNG-2, in capo alla società russa Novatek e alla francese Total, è stato “bloccato”. A pieno regime, l’impianto dovrebbe produrre circa 20 milioni di tonnellate di gas liquefatto all’anno, diretto verso i mercati asiatico ed europeo. Progetto su cui pende la garanzia di SACE, l’assicuratore pubblico italiano, per via del memorandum di cooperazione strategica con Novatek.
La decisione di Intesa Sanpaolo di congelare il prestito è arrivata per timore delle ripercussioni di ulteriori sanzioni rivolte alla Federazione russa. Una scelta, insomma, volta prevalentemente a tutelare il portafoglio e non l’ambiente e il clima, nonostante le pressioni esercitate da ReCommon e Greenpeace Italia negli anni siano riuscite a portare sotto i riflettori i futuri impatti del progetto, sottraendo spazi alla sua agibilità. Soprattutto, il lavoro di ricerca e campagna ha fatto emergere come Intesa Sanpaolo sia la “banca fossile” numero uno in Italia e quella con le relazioni più strette con Mosca, curando tutti i principali investimenti italiani in Russia e viceversa. Tra il 2016 e il 2020, i finanziamenti concessi dal primo gruppo bancario italiano alla sola industria fossile russa ammontano a 1,6 miliardi di dollari. Di questi, circa 400 milioni per l’impianto di trattamento di gas Amur, in capo a Gazprom, tra i più grandi del mondo. Nel 2020 gli investimenti ammontavano a 80 milioni di dollari. Progetti e investimenti in Russia che vanno a petrolio e gas, settori che alimenta l’offensiva militare in corso in Ucraina.
Nel 2016, Intesa Sanpaolo si era macchiata di un’operazione simile a quella per Arctic LNG-2, purtroppo portata a termine: 800 milioni di dollari per Yamal LNG, sempre di Novatek. L’esposizione finanziaria di Intesa verso le operazioni estrattive nell’Artico russo è opportunamente tutelata dalla banca torinese nei suoi ultimi impegni per il clima e l’ambiente, risalenti a luglio 2021: la policy esclude infatti i finanziamenti a progetti estrattivi offshore nell’Artico, permettendo invece quelli sulla terraferma, proprio come Yamal LNG e Arctic LNG-2.
I numeri e i documenti sopra citati sono il risultato della relazione speciale tra Intesa Sanpaolo e la Federazione russa, che risale alla privatizzazione del colosso energetico russo Rosneft, tra 2016 e 2017. All’epoca, il gruppo finanziario italiano fece da consulente al processo di transizione nonostante sulla società gravassero le sanzioni statunitensi, in seguito all’annessione della Crimea da parte della Russia. Inoltre, Intesa stanziò 5,2 miliardi di dollari per facilitare l’acquisizione del 19,5% di Rosneft da parte di un consorzio formato da Glencore e Qatar Investment Authority.
Figura chiave dell’operazione e di quelle successive è Antonio Fallico, dal 2003 alla guida di Banca Intesa Russia. Fallico è tra i pochi italiani a potersi fregiare dell’Ordine dell’Amicizia, onorificenza conferita dalla Federazione russa: nel suo caso, a riconoscimento del contributo per il rafforzamento dei rapporti economico-culturali tra Italia e Mosca, pervenuto dietro decreto presidenziale. Correva l’anno 2008, presidente era Vladimir Putin. Nello stesso anno Fallico fu nominato Console onorario della Federazione russa a Verona e nel 2012 presidente del Consiglio di sorveglianza del MIR, primo fondo di investimenti italo-russo, fondato da Intesa Sanpaolo e Gazprombank.
Il 2 marzo, il giorno successivo al blocco del prestito per Arctic LNG-2, sullo sfondo di una guerra che si fa sempre più cruenta, coinvolgendo la popolazione civile ucraina, il Consiglio d’Europa introduce nuove sanzioni verso la Federazione russa. Tra queste, l’esclusione dal sistema Swift di sette banche russe. Questo sistema gestisce e valida lo scambio di informazioni tra istituti di credito, operanti anche in Paesi differenti, facilitando così le transazioni. Stare fuori dal sistema Swift significa rallentare in maniera importante o, nel peggiore dei casi, interrompere le operazioni finanziarie. Le banche russe colpite dalle sanzioni sono Bank Otkritie, Novikombank, Promsvyazbank, Rossiya Bank, Sovcombank, VEB e VTB. Sorprendentemente, le sanzioni non colpiscono Gazprombank, il cui primo azionista è Gazprom, principale società energetica russa controllata dallo Stato, che può fare il bello e il cattivo tempo quando si tratta di export di gas russo verso l’Europa, di cui quest’ultima è dipendente. Gazprombank è quindi in prima linea nelle transazioni riguardanti commesse energetiche tra Federazione russa e Unione europea.
Il sistema Swift è controllato da circa 3.500 banche commerciali di tutto il mondo. Nel suo consiglio di amministrazione siedono 24 membri, rappresentanti delle più potenti banche commerciali al mondo. L’unico italiano presente? Stefano Favale, Global head of global transaction banking di Intesa Sanpaolo e membro del consiglio di amministrazione di Banca Intesa Russia, presieduto proprio da Fallico. In un mondo finanziarizzato, certe sanzioni economiche hanno l’impatto di un ordigno bellico, e mietono purtroppo vittime civili. Le persone finiscono schiacciate tra i giochi di potere di stati e multinazionali, pagandone il prezzo più alto. Tuttavia, non possono non saltare all’occhio singolari congiunture.
Spostiamoci al confine tra gli Stati Uniti e il Messico, dove c’è il Permian Basin, una delle aree del mondo dove si producono più petrolio e gas, in gran parte attraverso l’utilizzo di pratiche ultra-invasive come il fracking o la trivellazione orizzontale. Si stima che, fra il 2020 e il 2050, la combustione di tutte le riserve di petrolio e gas del Permian Basin possa produrre l’emissione di 46 miliardi di tonnellate di CO2. Una “bomba climatica” che deve essere disinnescata subito, prima che molti pozzi divengano operativi. In prima fila nella produzione e nel trasporto di petrolio e gas di questa regione troviamo colossi quali Chevron, ExxonMobil e Kinder Morgan, società che beneficiano abbondantemente dei soldi di Intesa Sanpaolo. Gli investimenti di Intesa in queste compagnie ammontavano nel 2020 a 280 milioni di dollari. Petrolio e gas estratti nel Permian Basin raggiungono poi il Golfo del Messico, dove il gas viene liquefatto per essere trasportato in Europa attraverso grandi navi metaniere. Si tratta di un commercio in forte crescita, sostenuto dagli accordi tra Stati Uniti ed Unione Europea e supportato finanziariamente da ingenti somme di denaro. Nel 2020, i prestiti di Intesa Sanpaolo per i progetti delle società che operano nel settore del gas naturale liquefatto (LNG) nel Golfo del Messico ammontavano a 387 milioni di dollari.
Insomma, se anche lo scenario globale di sfruttamento delle risorse naturali dovesse cambiare, sicuramente Intesa Sanpaolo ha già preparato il terreno per saltare sul carro dei “vincitori”. Non c’è da stupirsi: la finanza globale ha sempre saputo fiutare l’affare e difficilmente perde. Questa suo trasformismo porta introiti e dividendi più alti, a discapito della salute del pianeta e di chi lo abita.
Per tutte queste ragioni, è necessario lottare affinché la finanza abbandoni definitivamente l’industria dei combustibili fossili che, oltre ad essere responsabile indiscussa della crisi climatica, è foriera di disuguaglianze sociali e conflitti armati. È ora che decisioni come quella sull’Arctic LNG-2 siano prese per motivi etici e non di mero opportunismo. Intesa Sanpaolo non può più nascondersi dietro il suo greenwashing.
Daniela Finamore è Fossil fuel campaigner di ReCommon.
Simone Ogno è campaigner di ReCommon.
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