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Economia / Opinioni

Legge di Bilancio e crisi di governo: perché stiamo vivendo una situazione paradossale

© Ilse Orsel - Unsplash

Per porre in essere la legge di Bilancio (un articolo, 1.150 commi) occorrono 176 decreti attuativi, nel frattempo il governo non ha ancora un piano definitivo per l’utilizzo dei fondi europei. Sta prevalendo un “esasperato tatticismo” che rischia di minare gli strumenti per la ripresa economica e sociale del Paese, osserva Alessandro Volpi

La discussione parlamentare sulla legge di Bilancio è stata praticamente inesistente, data la blindatura al Senato e nonostante il tentativo di metterci dentro di tutto per accelerare l’iter di approvazione, con un articolo di 1.150 commi. Per porla in essere concretamente serviranno ben 176 decreti attuativi, una sorta di infinita catena di Sant’Antonio. È interessante rilevare -ed è il primo paradosso di questi giorni- che il testo originario, approdato in Parlamento, ne prevedeva “solo” 83, il resto si è aggiunto durante i fulminei lavori alla Camera. In pratica senza discussione la manovra si è appesantita di misure che richiederanno altri 93 decreti, molti dei quali hanno una scadenza e dunque rischiano di non entrare mai in vigore. Solo la legge di Bilancio presentata dal governo Gentiloni nel 2018 aveva fatto peggio: 189 decreti attuativi. Il vero problema è che ora una parte dei provvedimenti inseriti nella legge di Bilancio riguardano i ristori e le misure per la ripresa del Paese che, a causa dei passaggi introdotti, rischiano di slittare nel tempo o di restare inapplicati.

È  davvero inutile lo sforzo di inserire nella manovra sostegni di vario genere, correggendo l’impianto originario del testo della legge, se poi tale sforzo aumenta la complessità dell’attuazione della manovra stessa, finendo per svuotarla. Un paradosso? Un suicidio? O solo tanta approssimazione?

Il secondo paradosso possiede anche tratti surreali. Non è davvero pensabile che, dopo mesi, non sia stato ancora definito il piano italiano di utilizzo dei fondi del “Recovery Plan”. Il 29 dicembre 2020 il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in occasione della conferenza stampa di fine anno, ha presentato un’ulteriore bozza -la seconda, la terza?- in cui sono previsti 120 interventi, distribuiti fra 55 miliardi di euro di bonus, 120 miliardi circa di investimenti e il resto destinato a misure miste investimenti e incentivi. Le 153 pagine in questione sono accompagnate dall’indicazione per ciascun intervento, come richiesto dalla Commissione europea, di “pietre miliari” (milestone) e obiettivi (target), dei soggetti proponenti e attuatori, dell’impatto green e digital e della natura della spesa. Dunque il livello di definizione raggiunto sembrerebbe buono. In realtà non è così perché sulla stesura definitiva del piano pesano le tensioni durissime fra le forze di governo e ciò rischia di smontare per intero, in maniera paradossale, la bozza del 29 dicembre dal momento che non è chiaro se le risorse da indirizzare ai nuovi interventi debbano essere pari a 40-50 o a 127 miliardi di euro; in sostanza una differenza abissale che implicherebbe la riscrittura dell’intero documento.

Il vero problema però è ancora un altro. Le differenze sulla destinazione delle risorse e, soprattutto, sull’esigenza di utilizzare tutti i prestiti connessi al “Recovery Plan” per finanziare interventi nuovi, piuttosto che riservarne un’ampia porzione per dare copertura a misure già previste senza far lievitare il debito pubblico, non hanno nulla di strategico. Sono invece condizionate da un esasperato tatticismo il cui obiettivo è quello di superare l’attuale fase politica approdando a un nuovo governo, senza passare per la strada delle elezioni. Si tratta in altre parole di schermaglie politiciste che, purtroppo, prendono forma nella definizione del più importante strumento di politica economica, sociale e culturale di cui dispone ora il Paese e nel corso della pandemia. La mancanza di una vera maggioranza politica si sente e neppure i richiami del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sembrano bastare a eliminare il paradosso di un piano che non c’è.

Il terzo paradosso è quasi una triste constatazione. Dall’11 maggio 1948, quando le Camere elette il precedente 18 aprile si riunirono per l’elezione del primo presidente della Repubblica italiana, ad oggi le crisi di governo sono state più di 70. Di queste una sessantina sono state crisi vere e proprie, con dimissioni del governo in carica e formazione di un esecutivo nuovo; le altre sono state crisi “rientrate”, aperte dalle dimissioni dell’esecutivo, ma poi chiusesi con il rinvio alle Camere del governo uscente e con la sua sopravvivenza in carica. In pratica in settant’anni di storia politica, l’Italia ha conosciuto più di una crisi di governo all’anno; dunque le crisi di governo sembrano essere connaturate al costume politico del nostro Paese. E non solo durante gli anni della Repubblica. In occasione della Prima Guerra mondiale, dal 1914 al 1918, si sono succeduti ben tre governi; il gabinetto Salandra, che ha portato l’Italia in guerra, il governo Boselli e poi, dopo Caporetto, il governo Orlando, destinato a cadere già nel 1919, allorché si costituì il debole esecutivo Nitti.

Se facciamo ancora un passo indietro, la difficile fase sociale di fine secolo vide succedersi in rapida sequenza, dal 1896 al 1900, quattro gabinetti malfermi. Allora, davvero, perché stupirsi se in piena pandemia, mentre l’economia è in dura recessione e bisogna organizzare la somministrazione dei vaccini, stiamo vivendo l’ennesima ipotesi di “rimpasto”. Historia magistra vitae; non per noi italiani, che amiamo le nostre abitudini e vogliamo reiterarle con pervicacia.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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