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Economia / Opinioni

Le strane scelte economiche del G7 contro la Russia che favoriscono la Russia

I governi occidentali, assecondati da buona parte della stampa, rivendicano duri colpi a Mosca. Dal divieto all’import di oro al presunto default indotto. Ma sono armi spuntate. Come lo sarebbe il “tetto” al prezzo del gas, spiega Alessandro Volpi, ricordando “Quota Novanta” di mussoliniana memoria

© Anastasiya Romanova - Unsplash

Nei rapporti economici con la Russia i governi occidentali stanno tenendo comportamenti poco comprensibili, assecondati da buona parte della stampa, almeno nel caso italiano. Tre esempi.
Il primo ha a che fare con il divieto di importare oro dalla Russia da parte dei membri del G7, una misura risibile. I membri di quel consesso, infatti, hanno smesso di importare oro dalla Federazione Russa, in pratica, da marzo, a cominciare dal Regno Unito dell’ineffabile Boris Johnson che ne era in passato il principale importatore. Ma allora perché immaginare una misura del genere, a cui la stampa italiana non ha mancato di dedicare grande attenzione?
Sicuramente è presente l’ennesimo effetto propagandistico per “spezzare le reni” alla Russia, usando però armi decisamente spuntate. C’è poi l’interesse degli Stati Uniti, principali detentori mondiali di riserve auree e grandi esportatori, che sperano nell’ennesima speculazione al rialzo, questa volta dell’oro, fermo intorno ai 1.800 dollari l’oncia. Una forte rivalutazione delle riserve auree favorirebbe il dollaro, ben oltre il parziale deprezzamento determinato proprio dall’oro in salita. Il presidente Joe Biden vuole convincere la Federal Reserve a non stringere troppo la politica monetaria e ha bisogno della tenuta del dollaro per attrarre capitali dal resto del mondo.

In realtà, ancora una volta, la sanzione sull’oro rischia di favorire soprattutto la Russia che ha ingenti riserve auree, intorno ai 140 miliardi di dollari, e che soprattutto sta pagando in oro una parte delle importazioni da Cina e India; se il prezzo dell’oro sale, la Russia avrà più risorse per pagare i beni di cui ha bisogno e che ormai non compra più dall’Europa. In pratica, si vieterebbe alla Russia di vendere oro a chi già non lo vende più e gli si permetterebbe di venderlo a prezzo più alto a coloro a quali lo sta vendendo.

Il secondo esempio riguarda il tema del default russo a cui i principali giornali italiani hanno dato enorme risalto. Per chiarezza si tratta del mancato pagamento in dollari o in euro di interessi per 100 milioni, praticamente un’inezia. Ma il vero bluff è un altro. La Russia da tempo non finanzia il proprio debito sul mercato internazionale e, peraltro, sta sganciandosi da dollaro e euro, legando il rublo al reminbi e alla rupia. Il debito russo, sostanzialmente molto contenuto rispetto al Pil -sarebbe virtuoso per i parametri di Maastricht- è in mani russe quasi interamente ed è coperto con le entrate garantite da gas, petrolio, commodities e materie prime; in estrema sintesi la Russia è in una condizione che oscilla tra la Norvegia, dove sono le rimesse energetiche a finanziare il debito, e il Giappone, dove il debito è tutto in mani giapponesi.

Intanto il rublo sta continuando a rafforzarsi. Allora che cosa significa il default russo? Nella sostanza nulla, ma per alcuni giornali diventa una notizia da prima pagina. Il vero dato è che il totale isolamento finanziario ed economico della Russia sta creando rapidamente un nuovo capitalismo degli emergenti, in aperto contrasto con il turbo-capitalismo ma pronto ad occupare gli spazi proficui dello sfruttamento delle risorse del Pianeta. Invece di un capitalismo, ne avremo due in competizione, in una corsa a distruggere qualsiasi idea di mercato equo e qualsiasi prospettiva di comunità.

Il terzo esempio si riferisce all’ormai annosa questione del tetto al prezzo del gas. L’ipotesi di “calmierare” i prezzi del gas russo significa porre un tetto al prezzo del gas di tutto il Pianeta; in altre parole, se l’Europa non intende pagare il gas russo oltre 90-100 euro Megawattora, deve applicare la stessa regola a tutto il gas mondiale. Questo significa, peraltro, mettere un tetto a tutti i prezzi dell’energia, visto che al prezzo del gas sono agganciati i prezzi di tutte le fonti energetiche. Si tratta di una scelta molto pericolosa; in Europa passa soltanto il 27% dei gasdotti mondiali e una parte ancor più limitata del gas liquefatto. Stabilire unilateralmente un prezzo massimo ad opera di un compratore che è comunque minoritario rispetto al mercato mondiale significa, probabilmente, indurre il resto del Pianeta a fare a meno dell’Europa, che avrà sempre maggiori difficoltà di approvvigionamento.

L’Algeria, la Norvegia, gli stessi Stati Uniti, l’Azerbaigian, la Libia, l’Australia e altri produttori accetteranno i prezzi europei? Sembra molto difficile, anche perché i prezzi intanto continuano a salire per effetto della speculazione. Vendere a 90-100 euro quando il mercato paga 135 è poco allettante. La “politica” del tetto unilaterale da parte dell’Europa sembra la strategia di “Quota Novanta” di mussoliniana memoria: l’Italia decise nel 1926 che una sterlina valeva 90 lire, ma i mercati ne volevano 120-130 e da allora gli scambi commerciali italiani crollarono bruscamente.

Una considerazione finale. Mentre i membri del G7 varano queste politiche contro la Russia sembrano occuparsi poco di un problema cruciale. Le scorte di litio e di rame sono praticamente esaurite in Europa. I “magazzini” non comprano più perché i prezzi sono troppo alti e così interi settori produttivi rischiano di bloccarsi nonostante le grandi commesse. Nel frattempo i siti finanziari sono affollati di costanti offerte di Etf, di prodotti finanziari, che scommettono sul litio e sul rame, facendo naturalmente impazzire il prezzo. È uno strano mondo quello in cui chi ha bisogno di litio e rame non compra perché costano troppo e non è più conveniente produrre, mentre se “li comprano” i tanti geni della finanza facile, veicolati dai siti finanziari di largo consumo. Ma su questo il G7 ha poco da dire.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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