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Economia / Opinioni

Benzina oltre i due euro al litro. Si chiama in causa la guerra ma la ragione è un’altra

Se oggi paghiamo la benzina verde più di due euro al litro questo non dipende da dinamiche reali ma dagli artifici della finanza che garantiscono ampi margini agli speculatori e generano pesanti costi per i consumatori. L’analisi di Alessandro Volpi

Il costo di un litro di benzina verde ha superato i due euro. Per capire una simile lievitazione si chiama in causa la guerra in Ucraina: in realtà, ancora una volta, il motivo principale dell’aumento è la speculazione. È possibile mettere in fila la sequenza che genera questo incremento. Il prezzo del greggio è definito in prima battuta dai grandi produttori mondiali, che appartengono all’Opec (l’organizzazione che riunisce i principali Paesi esportatori di petrolio) un cartello monopolistico, o sono fuori da tale cartello e contribuiscono all’esportazione mondiale. Da tempo la produzione complessiva oscilla tra 90 e i 95 milioni di barili al giorno.

Su questo prezzo prende corpo la speculazione dei derivati finanziari che scommettono sulle aspettative: se si immaginano le sanzioni contro la Russia, si scommette al rialzo e il prezzo del barile di greggio sale subito anche se le sanzioni poi non vengono approvate o è prevista la loro entrata in vigore otto mesi dopo. Sul prezzo del petrolio vengono definiti quelli della benzina e del gasolio, in base ai dati forniti da una agenzia privata, Platts, con sede a Londra, di proprietà di grandi fondi hedge come Barclays flobal investors, Goldman sachs asset management, Vanguard group, Deutsche asset management america, Barclays global investors. Questa agenzia, ogni giorno, fornisce quotazioni che sommano alle speculazioni sul mercato del greggio le “valutazioni” espresse dalla stessa agenzia, certo non insensibile agli interessi dei propri azionisti, solerti a tener conto, di nuovo, delle aspettative in essere. Se c’è il rischio di sanzioni, le aspettative salgono.

Dunque nella determinazione del prezzo della benzina e del gasolio non pesa la realtà (ovvero l’offerta e la domanda reale di petrolio e benzina) ma una doppia speculazione fondata sulle aspettative. Più nello specifico, riguardo al prezzo della benzina definito da Platts, si aggiungono poi i margini della distribuzione e gli oneri fiscali, che nel caso dell’Iva si applicano come percentuale al prezzo della benzina stessa. Se oggi paghiamo la benzina verde più di due euro al litro, questo non dipende da dinamiche reali ma dagli artifici della finanza che garantiscono ampi margini agli speculatori e generano pesanti costi per i consumatori.

Verrebbe da chiedersi cosa c’entra tutto questo con il mercato che dovrebbe consentire le condizioni migliori per i consumatori. Il problema è che il mercato ormai non esiste più: inghiottito da una brutale e vorace finanziarizzazione, in cui la guerra in Ucraina è una formidabile occasione di profitto e una delle cause di una feroce inflazione destinata a portarci in una fase nuova, davvero difficile. Oltre a costituire una tassa indiretta che colpisce in maniera indiscriminata tutti, senza alcuna distinzione di reddito, producendo quindi effetti pesantemente regressivi, ha un’altra rilevante conseguenza in termini fiscali. A parità di retribuzione nominale, le aliquote del prelievo fiscale rimangono le stesse, ma quella retribuzione nominale, proprio a causa dell’inflazione, vale ora il 7% in meno in termini reali, con l’effetto di un ulteriore impoverimento dei lavoratori. In altre parole chi ha una retribuzione di 30mila euro, paga l’aliquota calcolata su quella cifra, che però in termini reali equivale a poco meno di 28mila. In questo senso l’inflazione agisce sui redditi in duplice modo, erodendo il potere d’acquisto e aggravando il carico fiscale a parità di reddito. Senza politiche vere di contrasto a questo fenomeno, le disuguaglianze sociali si approfondiranno drammaticamente. Certo, non sembra la strada giusta quella auspicata dalla Banca d’Italia, da Confindustria e da tanta parte della stampa italiana di “congelare” gli aumenti salariali.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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