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Diritti / Attualità

Le “riforme” che hanno smontato il diritto d’asilo in Italia. E chi ne paga gli effetti

© Jon Tyson - Unsplash

La cancellazione del grado di appello e della protezione umanitaria ha fatto schizzare i dinieghi e ingolfato gli uffici giudiziari. Un’analisi dettagliata fa un bilancio dei decreti del biennio 2017-2018 (“Minniti-Orlando” e “Salvini”) che rischiano di condannare alla vulnerabilità oltre 157mila persone

Oltre 157mila richiedenti asilo di cui è stata esaminata la domanda di protezione in Italia tra 2016 e metà 2020 rischiano di ritrovarsi privi di un permesso di soggiorno e quindi costretti a vivere in condizioni di vulnerabilità e precarietà. Una conseguenza della “contrazione” del diritto d’asilo nel nostro Paese determinata in particolare dalle “riforme” del biennio 2017-2018. Ovvero dal decreto “Minniti-Orlando” (d.l. 13/2017), che ha soppresso la possibilità di proporre appello contro la decisione di primo grado, e dal primo “decreto Salvini” (d.l. 113/2018), che ha cancellato la protezione umanitaria, l’ha “sostituita” con altre forme speciali al ribasso e ha fatto schizzare il tasso dei dinieghi.

È quanto emerge da un’attenta analisi dei procedimenti amministrativi e giudiziari degli ultimi cinque anni condotta da Monia Giovannetti -socia Asgi, componente del comitato di redazione di Diritto, Immigrazione e Cittadinanza- e pubblicata da Questione Giustizia a inizio maggio 2021.

Il dato da cui parte Giovannetti è quello delle oltre 385.528 domande di asilo esaminate dalle commissioni territoriali tra 2016 e metà 2020. A questo primo livello amministrativo emerge che nei cinque anni considerati circa un terzo delle domande (124.723) è stato definito con il riconoscimento della protezione internazionale mentre i mancati riconoscimenti nel merito sono stati pari al 58% (al netto degli irreperibili o altro esito). Dalle “impugnazioni” contro le decisioni delle commissioni territoriali sono scaturiti 268.937 nuovi procedimenti iscritti presso gli uffici giudiziari.

In caso di diniego o esito insoddisfacente in commissione, infatti, il richiedente asilo ha il diritto di presentare ricorso in sede giurisdizionale. Lo fa per “far valere i motivi d’illegittimità della decisione, e laddove disponibili, allegare fatti ed elementi nuovi, o non conosciuti o conoscibili al momento della decisione, nonché l’eventuale ulteriore documentazione divenuta disponibile”, ricorda Giovannetti.

La circostanza come visto è frequentissima, il tasso di impugnazione medio stimato a livello nazionale è stato del 94%. Questo ha portato dal 2016 al primo semestre 2020 all’iscrizione di 209.155 procedimenti nei tribunali, 39.110 in Corte d’Appello e 20.684 in Cassazione. La somma fa oltre 269mila nuovi procedimenti.
Come è andato questo “secondo tempo”? “I procedimenti definiti sono stati 177.140 di cui oltre un terzo con un dispositivo di accoglimento/riforma -spiega Giovannetti. Seguendo la traiettoria degli esiti e tracciando il passaggio dalla fase amministrativa a quella giurisdizionale, possiamo, dunque, ragionevolmente pensare che siano state complessivamente 182.000 le persone alle quali è stato riconosciuto un titolo volto alla protezione e tutela nell’arco di tempo considerato”.

I dati smentiscono dunque anni di propaganda sui “finti richiedenti asilo”. È possibile inoltre “ipotizzare che coloro i quali giungeranno ad avere un titolo di soggiorno per protezione e dintorni saranno il 59% anche all’esito delle relative impugnazioni giurisdizionali”. Significa sei domande accolte su dieci.

Il dettagliato approfondimento di Giovannetti mostra come negli ultimi anni la strada del diritto d’asilo sia stata lastricata di ostacoli. Un esempio è il decreto “Minniti-Orlando” del 2017. Per via di questo provvedimento nei confronti delle decisioni di primo grado riferite a cause introdotte a partire dal 17 agosto 2017 non è stato più possibile fare appello ma solo ricorrere in Cassazione. La giustificazione dell’allora governo Gentiloni era quella di voler “sveltire” i procedimenti. Obiettivo miseramente “naufragato”, ricorda Giovannetti. “Come richiamato dal primo presidente della Corte di Cassazione, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 -si legge nel contributo- l’impoverimento della qualità del giudizio di merito privato della seconda valutazione ha avuto ricadute pesanti per la Cassazione in termini di sovraccarico dei giudizi di Cassazione e in termini di riduzione delle garanzie di accurato esame dei fatti, in quanto ‘il filtro più corretto e conforme a un innalzamento della qualità complessiva del giudizio, è costituito da un giudizio di appello svolto bene'”.

In teoria (d.lgs. 25/2008) entro sei mesi dal deposito del ricorso/impugnazione la pratica dovrebbe essere definita, anche se il termine non è perentorio. La pratica è diversa ed è rappresentata dal “42% dei procedimenti pendenti al 30 giugno 2020 in Corte d’Appello iscritti nel 2018, dal 64% di quelli in sede di Tribunali iscritti nel 2019, o dal 69% di procedimenti iscritti in Cassazione nel 2019 e ancora oggi in attesa di essere definiti” (ancora Giovannetti). Sono 143mila le pratiche pendenti.

Chiude il cerchio il primo “decreto Salvini” (d.l. 113/2018 convertito in legge 132/2018) e i suoi effetti nefasti sulla già peggiorata situazione delle decisioni di non riconoscimento.
Lo sguardo di Giovannetti abbraccia gli ultimi 15 anni. “L’analisi temporale dell’ultimo quindicennio ci permette di constatare che prima del 2015 la percentuale dei dinieghi era intorno al 30-40% (con un picco minore del 17% nel 2012 quando è stata proposta la protezione umanitaria per oltre 15.000 persone a seguito dei provvedimenti assunti nell’ambito della cosiddetta Emergenza Nord Africa) e che solo per due annualità (2009 e 2011) gli esiti di non riconoscimento avevano superato il 40%”.

Dal 2015 la situazione muta. “Per la prima volta oltre una domanda su due di quelle esaminate è stata rigettata dalla competente commissione territoriale e i dinieghi, al netto dei rigetti per irreperibilità, sono aumentati diventando la maggioranza degli esiti”.

Distribuzione degli esiti amministrativi delle domande di protezione internazionale dal 2010 al 2020. Fonte: elaborazione a cura di M. Giovannetti su dati del ministero dell’Interno

È qui che si innesta il primo decreto “sicurezza” del governo Conte I. “Anche a seguito degli effetti risultanti dall’adozione della legge 132/2018 -continua Giovannetti- quasi sette domande esaminate su dieci hanno ricevuto un esito negativo. In particolare nel corso dell’ultimo biennio i provvedimenti amministrativi di riconoscimento di una qualche forma di protezione hanno riguardato circa una richiesta su cinque, ovvero il 20% delle istanze di protezione internazionale esaminate”.

Abolizione del permesso umanitario e soppressione del doppio giudizio di merito hanno così contribuito a rendere “sempre più incerti” i perimetri delle tutele dei richiedenti asilo. Merce per la propaganda mediatica e non “soggetti attivi del proprio destino”, per usare la felice espressione dell’autrice di questa preziosa ricerca.

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