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Diritti / Attualità

Le responsabilità delle Banche di sviluppo negli attacchi ai “defenders”

Attivisti e comunità che contestano i grandi progetti -dalle dighe alle miniere- supportati dalle istituzioni finanziarie sovranazionali sono oggetto di violenti attacchi. Le banche ignorano il fenomeno e non fanno abbastanza per contrastarlo

Da quasi dieci anni cittadini e attivisti armeni protestano e si battono contro il progetto della Lydian International -una multinazionale del settore minerario con sede negli Stati Uniti- di avviare una miniera d’oro ad Amulsar, a pochi chilometri di distanza dalla località termale di Jermuk, nel Sud-Est del Paese. Secondo i manifestanti,l’attività mineraria metterebbe a rischio un’area ricca di biodiversità, oltre alla sussistenza della popolazione locale che in larga parte vive di agricoltura. Le manifestazioni, i blocchi stradali, le petizioni hanno impedito -almeno per il momento- alla miniera di entrare in attività, ma a caro prezzo: decine di attivisti locali sono stati perseguitati, minacciati e criminalizzati dall’azienda. Lydian ha fatto sistematicamente ricorso a querele per diffamazione -più di venti quelle presentate tra il 2018 e il 2019- nel tentativo di silenziare le voci critiche e indurle a ritirare le denunce. A tutto questo si aggiungono le campagne di diffamazione online e sui social media, le minacce durante le assemblee pubbliche organizzate per discutere il tema della miniera e persino aggressioni fisiche.

Tutto questo però non ha impedito alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) di finanziare il progetto prima nel 2009 con 4,5 milioni di dollari e poi con altri 8,9 milioni di dollari nel 2016. Il secondo finanziamento, in particolare, è stato garantito alla Lydian nonostante gli attivisti armeni avessero già sottoposto alla Bers una lettera di reclamo nel 2011 e un ricorso formale nel 2013. “La due diligence (l’attività di “dovuta diligenza”, ndr) della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo è stata inadeguata e non ha identificato né affrontato le problematicità al progetto, in particolare quelli di ritorsione contro le persone che si opponevano alla miniera”, è la denuncia contenuta nel reportWearing blinders: how development banks are ignoring reprisal risks” pubblicato il 28 giugno dalla Coalition for human rights in development. “Non ci sono prove che la Banca abbia condotto una valutazione indipendente della situazione -si legge nel report-. I dati raccolti suggeriscono che l’istituzione abbia ignorato una serie di fattori che indicavano chiaramente il rischio di rappresaglie”.

Quello armeno non è l’unico caso analizzato nel rapporto, che contiene una dettagliata critica ai comportamenti delle banche multilaterali di sviluppo (la più nota è la Banca mondiale) che spesso falliscono nell’identificare e nel prevenire le rappresaglie ai danni degli attivisti che si oppongono a miniere, dighe, infrastrutture e persino iniziative di tutela ambientale finanziati da questi istituti. Progetti che, evidenzia il report, “vengono imposti dall’alto senza consultazioni adeguate della popolazione” sebbene le Banche di sviluppo riconoscano formalmente il diritto alla partecipazione delle comunità locali interessate oltre a dover garantire il rispetto dei diritti umani.

“Prevenire proattivamente le rappresaglie dovrebbe essere fondamentale per le banche di sviluppo, soprattutto quando investono in contesti in cui i difensori dei diritti umani e le popolazioni locali rischiano di essere perseguitati, attaccati o addirittura uccisi, semplicemente per aver espresso le loro opinioni -commenta Dalile Antunez, ricercatrice della Coalition for human rights in development-. Se gli istituti sovranazionali rispettano seriamente gli impegni assunti in materia di partecipazione pubblica e se vogliono che i loro progetti siano davvero vantaggiosi per le popolazioni locali, devono intraprendere azioni immediate e concrete per porre fine alle ritorsioni”.

Un altro caso analizzato nel report è quello delle popolazioni indigene che vivono nei pressi della riserva naturale di Toro Semliki in Uganda, un luogo da cui erano state scacciate sulla fine degli anni Novanta a causa del conflitto, ma dove non hanno mai potuto fare ritorno dal momento che nel 2005 il governo ha esteso i confini del parco, vietando loro di tornare a casa. A vigilare sui confini del parco, impedendo con tutti i mezzi il ritorno degli sfollati sono i ranger dell’Uganda wildlife authority (Uwa) che nel corso degli anni si sono responsabili di attacchi e aggressioni ai danni delle comunità indigene. Secondo quanto denunciano gli autori del report dal 2015 a oggi i ranger della riserva Toro Semliki hanno compiuto almeno 86 attacchi: 34 persone sono state aggredite, 15 arrestate e almeno 29 hanno perso la vita. “Molte vittime non hanno potuto nemmeno essere seppellite dal momento che le guardie dell’Uwa permettono ai familiari di recuperare i corpi dei loro congiunti solo dietro il pagamento di una tangente”, denuncia il rapporto.

Nonostante questi precedenti, nel 2021 l’Uwa è stata selezionata dalla Banca mondiale tra i beneficiari di un progetto da 2,3 milioni di dollari finalizzato a migliorare la gestione sostenibile delle aree naturali in Uganda e intervenire a favore delle comunità locali colpite dalla pandemia di Covid-19. Nei mesi in cui era in corso il negoziato sull’assegnazione sul progetto, le ritorsioni ai danni della popolazione indigena sono aumentate e i ranger hanno vietato alle persone di radunarsi in pubblico per tutto il 2020 con la scusa di prevenire il contagio. “Prima di decidere se investire o meno in un progetto, le banche di sviluppo dovrebbero valutare il contesto locale e le relazioni tra i loro clienti e le comunità locali -commenta l’attivista ugandese Gerald Kankya-. Quando questo non succede i conflitti si intensificano e chi alza la voce finisce per essere attaccato. La due diligence è fondamentale per individuare i rischi e prevenire le violazioni dei diritti umani”.

Altrettanto drammatica la situazione che si verifica nel distretto di San Mateo Ixtatán, nel Nord del Guatemala, dove l’Inter-american investment corporation (Iaic) ha finanziato nel 2013 con 13 milioni di dollari la compagnia Energía y Renovación per la costruzione di due grandi dighe per la produzione di energia elettrica. Fin dall’inizio la popolazione della zona, nella quasi totalità indigeni appartenenti a diverse comunità maya, ha protestato contro il progetto per i suoi elevatissimi impatti ambientali: rischio di inquinamento dei fiumi e devastazione del territorio in una zona in cui gli abitanti vivono di piccola agricoltura. Le ritorsioni sono state terribili: oltre a minacce, intimidazioni e querele nel distretto ci sono stati anche diversi omicidi mirati. Nel 2017 un uomo di 72 anni è stato assassinato durante una protesta pacifica; nel 2018 i due fratelli Nery e Domingo Esteban Pedro sono stati uccisi da un uomo vicino alla compagnia elettrica. Nel 2019 il leader indigeno JulioGómez Lucas e se suoi familiari sono stati sequestrati e torturati per otto ore per poi essere portati in un community center dove la popolazione era stata convocata per assistere alla punizione. Diverse donne e ragazze, inoltre, hanno denunciato di aver subito violenze e stupri.

La banca, conclude il report, non ha valutato i potenziali rischi di rappresaglia e di conseguenza non ha pianificato né implementato un’adeguata strategia di mitigazione del rischio. “Se avesse condotto consultazioni appropriate, nonché un’analisi del contesto più ampio in cui si trovano le comunità indigene interessate da progetti di sviluppo nel Paese, sarebbe stata in grado di prevedere gli elevati rischi di ritorsioni ai danni dei difensori dei diritti umani e dell’ambiente e di intraprendere azioni per evitare che gli attacchi si intensificassero”.

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