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Economia / Opinioni

Le mani sulla spesa sanitaria e una nuova spinta alla privatizzazione

L’aumento del fondo sanitario di quattro miliardi di euro rispetto al 2022 non basterà in alcun modo a coprire gli aumenti dettati dall’inflazione. Mentre il “Decreto Calderoli” sull’autonomia procede a una detassazione completa della sanità privata a tutto vantaggio di chi può permettersela. L’analisi di Alessandro Volpi

© Clay Banks - Unsplash

La spesa sanitaria nel nostro Paese tra il 2000 e il 2023 è quasi raddoppiata in termini nominali, passando da 68 a 131 miliardi di euro. Si tratta, tuttavia, di un dato fortemente falsato dall’inflazione perché se si considera la spesa sanitaria al netto dell’inflazione, l’incremento si riduce al 19%. Occorre peraltro considerare due dati in merito.

L’aumento in termini reali si è concentrato nei primi anni del secolo; dopo la crisi finanziaria del 2008 e la crisi dei debiti sovrani in Europa si è verificata una secca riduzione seguita da un lungo periodo di stabilità, che si è concluso solo nel 2020 con l’esplosione della pandemia. Attualmente la spesa sanitaria pubblica è vicina, in Italia, al 6,6% del Prodotto interno lordo. Nel frattempo, questo è il secondo dato, negli ultimi 20 anni gli over 65 sono aumentati di 2,5 milioni, con un rilevante aumento del fabbisogno di spesa sanitaria.

Nella Legge di Bilancio 2023 l’aumento previsto del fondo sanitario di quattro miliardi rispetto al 2022 non basterà in alcun modo a coprire gli aumenti di costo dettati dall’inflazione; basti pensare che di quei quattro miliardi, 1,5 sono destinati all’aumento del costo dell’energia. Va detto, poi, che nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, su un totale di 191 miliardi, 15,6 miliardi di euro sono destinati alla sanità, ma si tratta quasi del tutto di spesa per strutture che avranno bisogno di personale.

La “Missione 6” prevede infatti 1.350 case della comunità, 600 centrali operative territoriali e 400 ospedali di comunità per un totale di circa 18.350 infermieri, 10.250 unità di personale di supporto, 2.000 operatori socio-sanitari e 1.350 assistenti sociali: tutto personale da finanziare con la spesa sanitaria nazionale e, ad oggi, non previsto nei bilanci. Bisogna aggiungere che, allo stato attuale, la distribuzione delle case di comunità è molto difforme sul territorio nazionale e dunque la spesa per il fabbisogno di personale risulta tutt’altro che uniforme.

È chiaro che con questi numeri o si procede a un ripensamento della spesa pubblica e del fisco, ampliando la base imponibile e ricreando una vera progressività, o la privatizzazione sarà inevitabile. La strada scelta sembra invece del tutto diversa.

Nel cosiddetto “Decreto Calderoli” sull’autonomia compaiono, tra gli altri, due aspetti cruciali. Il primo riguarda la sanità privata. Il decreto affida alle Regioni la definizione delle regole in materia di fondi sanitari integrativi, in altre parole la sanità privata. È molto probabile che ciò significhi un’ulteriore accentuazione delle condizioni fiscali favorevoli di cui già godono tali fondi.

A riguardo basti ricordare che i contributi versati nei fondi sanitari privati sono esenti da imposizione fino ad un massimo di 3.500 euro e i rendimenti di tali fondi sono tassati al 20%; un’aliquota che Legge di Bilancio e delega fiscale vorrebbero portare al 10%. Regionalizzare questa materia vuol dire di fatto andare verso la detassazione completa della sanità privata a tutto vantaggio di chi può permettersela.

Il secondo aspetto è relativo ai contratti del personale sanitario che, in base alla cosiddetta autonomia, verranno, in larga parte, demandati alle Regioni; è possibile così che si proceda a sostituire i contratti da lavoro dipendente con le varie forme di contrattualistica relativa alle partite Iva; non più medici assunti, ma tante partite Iva che godono della flat tax fino a 85mila euro. Di nuovo, dunque, una spinta della privatizzazione e alla fine del gettito fiscale, in pieno contrasto con le necessità di tutelare un servizio pubblico essenziale.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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