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Altre Economie

Le isole dei tesori

Contro i Paesi offshore basterebbero capacità di analisi, buona volontà e qualche legge. Il giornalista Nicholas Shaxson suggerisce quali nel suo libro Nick Shaxson è un giornalista inglese, che ha collaborato, tra gli altri, con The Economist e The Financial…

Tratto da Altreconomia 127 — Maggio 2011
Contro i Paesi offshore basterebbero capacità di analisi, buona volontà e qualche legge. Il giornalista Nicholas Shaxson suggerisce quali nel suo libro

Nick Shaxson è un giornalista inglese, che ha collaborato, tra gli altri, con The Economist e The Financial Times. Esperto del mercato petrolifero, è autore dell’acclamato libro Poisoned Wells: The Dirty Politics Of African Oil.

Negli ultimi anni ha approfondito la questione dei paradisi fiscali, su cui ha pubblicato da poco -nel Regno Unito e in altri Paesi europei- il libro Treasure Islands”, che spiega in maniera molto chiara e incisiva come sono nate “le isole del tesoro”, come funzionano e quali sono le finalità dei centri offshore”, presentando una serie di soluzioni per risolvere la delicata questione. Shaxson collabora con il Tax Justice Network, la rete globale che a inizio del 2009 ha reso pubblica una “lista nera” dei paradisi fiscali, compilata da organizzazioni della società civile in base a parametri e indicatori in grado di offrire un quadro esauriente e veritiero della situazione, in contrapposizione con i canali istituzionali che invece sembrano minimizzare l’entità del problema. 

Una premessa: quando ci riferiamo ai paradisi fiscali pensiamo subito alle tasse. Eppure questa è una lettura troppo semplicistica. I paradisi fiscali non hanno a che fare solo con l’elusione del carico fiscale. L’offshore serve alle compagnie per evitare regole e vincoli che normalmente avrebbero nei loro Paesi di origine, con tutto quello che di negativo ne consegue. Non a caso sul web proliferano i siti che offrono servizi di varia natura, tra i quali la possibilità di aprire una società o un trust in un paradiso fiscale, ma anche l’acquisto di un passaporto diplomatico. Per la cifra non proprio modica di 50mila euro si può ottenere un tipo di documento con cui, come si legge sul sito della Castaldi Lawyer, “potete utilizzare i canali diplomatici negli aeroporti e non sarete soggetti a controlli doganali […] avrete accessibilità agli offshore fiscali per le imprese e la privacy […] e ottenere incontri di alto livello con funzionari di governo e capi di Stato”. Possiamo solo immaginare come possano essere impiegati tutti questi privilegi, che certo implicano una “scarsa predisposizione” alla trasparenza da parte dei soggetti che intendono acquistare un passaporto diplomatico. 

All’apice della crisi finanziaria i paradisi fiscali hanno acquisito rilevanza nel dibattito internazionale. Poi, dopo il G20 dell’aprile 2009 a Londra, sono di nuovo finiti nel dimenticatoio. Come mai?
In uno dei documenti ufficiali prodotti nei giorni immediatamente successivi al vertice si affermava: “L’era del segreto bancario è terminata”. Nell’arco di una settimana la cosiddetta lista nera dei Paesi considerati paradisi fiscali era già vuota: in questo modo fu data in pasto alla stampa di tutto il mondo la notizia che il problema era stato praticamente risolto. Ma nella realtà dei fatti è stato fatto pochissimo: i cambiamenti avvengono in maniera molto lenta, e per adesso notiamo solo un pizzico di trasparenza in più. Nella sostanza è mutato ben poco anche perché il sistema di scambio delle informazioni tra i vari Paesi è molto deficitario e permette molte scappatoie. Tutto il processo, poi, è stato affidato all’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che annovera tutte le super-potenze economiche del Pianeta, ndr), di cui fanno parte alcuni dei principali paradisi fiscali tra quelli che non sono riconosciuti come tali dall’opinione pubblica internazionale. Pensiamo a Lussemburgo, Olanda e Irlanda, ma anche allo stesso Regno Unito e in parte agli Stati Uniti, dove Delaware e Nevada sono a tutti gli effetti dei veri e propri paradisi fiscali. 

Come scrivi nel libro, buona parte della colpa per l’attuale sistema dei paradisi fiscali è da imputare proprio all’Inghilterra. 
Esatto. Una volta dissoltosi l’impero, il Regno Unito ha mantenuto relazioni più o meno strette con una serie di territori che di fatto risultano essere tutti paradisi fiscali. Jersey o Guernsey dipendono ancora da Londra, ma in parte anche le Cayman Island, Bermuda e Gibilterra, tanto che i governatori locali sono nominati dalle autorità britanniche e quando devono promulgare delle legislazioni sulla materia finanziaria si attengono agli input che provengono dall’Inghilterra. Questi territori servono per attirare vari tipi di business ed enormi flussi di denaro che vengono poi “veicolati” verso la City di Londra. Un’immensa tela di ragno che esiste ormai da decenni e che ammonta a circa la metà del giro d’affari offshore del Pianeta.  

Insomma, come paradiso fiscale la City di Londra conta più delle Cayman Island…

La City of London è il centro finanziario della Gran Bretagna da circa mille anni. Nei secoli ha acquisito uno status particolare: le leggi che normalmente si applicano nel resto del Paese lì non valgono. La City ha le sue regole e i suoi privilegi e come tale agisce in un regime di quasi totale opacità (vedi Ae 104). Anche a livello amministrativo è indipendente dal resto della città, ha il suo sindaco, i suoi magistrati e la sua forza di polizia. Per comprendere appieno la sua atipicità, basta rammentare che nella struttura consiliare oltre ai cittadini possono votare anche le imprese, come le tante banche che lì hanno la loro sede, in base al proprio peso economico. 
Ogni tanto c’è stato qualche tentativo di cancellare i privilegi di cui gode la City, ma il lavoro di lobby dei banchieri e delle finanziarie ha avuto successo e i governi che hanno provato a cambiare lo status quo hanno ritirato molto celermente le loro proposte di riforma. 

Leggendo il tuo libro si comprende come la questione degli aiuti allo sviluppo per i Paesi poveri vada affrontata in ben altro modo. Più che badare ai flussi in entrata -gli aiuti- bisogna pensare a quelli in uscita -la fuga di capitali-…
I flussi di capitale che ogni anno escono dai Paesi in via di sviluppo diretti verso i paradisi fiscali si possono calcolare, probabilmente per difetto perché non si hanno dati certi, in circa 1.200 miliardi  di dollari. Gli aiuti si aggirano, invece, sui 100 miliardi l’anno. La disparità è evidente, eppure questo è un elemento chiave di cui non si parla quando si affronta il dibattito della lotta alla povertà. C’è, anzi, una contraddizione quando un Paese ricco promette un aumento degli aiuti a un governo africano ma allo stesso tempo chiude gli occhi sull’operato di una sua multinazionale, che fa uscire fuori da quello stesso Paese milioni di dollari che potrebbero essere impiegati per le spese sociali. Come se non bastasse, negli ultimi decenni abbiamo assistito a continue crisi del debito estero di vari Stati del Sud del mondo, eppure allo stesso tempo le élite di questi Paesi hanno trasferito miliardi di dollari di asset in paradisi fiscali, con la complicità e la compiacenza del mondo occidentale. 

Anche la retorica sulla responsabilità sociale di impresa ha ormai fatto il suo tempo. Ci spieghi il perché?
È semplice: la responsabilità sociale d’impresa non solo non prende in esame la tematica dei paradisi fiscali, ma omette quasi del tutto la questione delle tasse. I governi garantiscono alle compagnie il permesso di svolgere le loro attività, riconoscendogli un’entità giuridica. Ciò presuppone che quelle stesse compagnie debbano rispondere del loro operato a tutti e non solo agli azionisti. Hanno quindi degli obblighi precisi, tra cui quello di pagare le imposte dovute e di essere il più trasparenti possibile.  

Quali potrebbero essere due o tre provvedimenti immediati per porre un freno al fenomeno dei paradisi fiscali?
Prima di tutto c’è bisogno di un cambiamento culturale, che chiaramente non è facile da ottenere. Iniziando a colpire gli intermediari finanziari, come avvocati e fiscalisti che gestiscono “denaro sporco”, con frequenti ed efficaci procedimenti penali, il messaggio potrebbe arrivare anche agli azionisti e ai manager delle compagnie che operano nell’ambito dei paradisi fiscali. Un provvedimento concreto che suggeriscono le organizzazioni della società civile che trattano questa materia riguarda il modo in cui sono tassate le corporation.  Al momento pagano in base alla struttura legale che si sono date, ed è il motivo per cui le principali banche e multinazionali hanno decine di filiali in tutti i paradisi fiscali, dove cercano di far risultare la parte più consistente dei loro profitti. Se invece la tassazione tenesse conto del volume delle attività economiche prodotte in ogni giurisdizione, questo trucco non funzionerebbe più. Una società che ha mille dipendenti ed effettua la maggior parte delle vendite in Italia, e nelle Isole Cayman ha solo un ufficio e un paio di consulenti, dovrebbe pagare la maggior parte delle tasse nel vostro Paese, perché è li che si svolge il suo business.

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