Diritti / Intervista
Stefania Prandi. Le parole e lo sguardo di chi resta
Nel libro “Le conseguenze” la giornalista racconta le storie delle famiglie che sopravvivono al femminicidio della donna amata. Combattono contro l’invisibilità per avere giustizia
Le madri, i padri, i figli. È sul loro insanabile dolore, sull’abbandono e sull’ingiustizia che segnano la vita delle famiglie delle donne uccise da un uomo, il compagno o l’ex compagno, che rivolge lo sguardo la giornalista Stefania Prandi (stefaniaprandi.it), autrice del libro “Le conseguenze” pubblicato da Settenove Edizioni. Un reportage lungo tre anni che racconta l’esito più drammatico della violenza di genere attraverso le parole di chi sopravvive al femminicidio, termine usato per indicare l’uccisione di una donna in quanto donna, accolto dall’Accademia della Crusca nel 2013 grazie al lavoro politico dei centri antiviolenza e dei movimenti delle donne. Prandi lega insieme le storie di chi vive le conseguenze del dopo: i processi e le umiliazioni nei tribunali, le spese legali, il vuoto lasciato dalle istituzioni e i risarcimenti che non arrivano. I ricordi rimasti dentro casa nelle foto appese alle pareti, negli armadi, nelle camere da letto.
“In Italia viene assassinata in media una donna ogni sessanta ore. Mentre il numero degli omicidi diminuisce, quello dei femminicidi in proporzione aumenta”, spiega Prandi. Nei primi sei mesi del 2020 le donne uccise sono state 59 e le violenze in contesti domestici sono aumentate nel periodo del lockdown. Secondo i dati del Viminale pubblicati lo scorso settembre, negli 87 giorni in cui si è rimasti chiusi in casa per l’emergenza Covid-19, i femminicidi in famiglia sono stati 44. Nel 2019 erano stati più di 90, commessi principalmente in contesti familiari. Ma i dati non sono esaustivi perché non includono le donne scomparse che, secondo il ministero dell’Interno, dal 2007 al 2016 sono state 1.263. “La narrazione mediatica spettacolarizza la violenza e la confina alla cronaca nera. Mi sono interrogata su quali potessero essere i modi più adatti per parlarne. Ho cercato una chiave diversa e ho scelto di parlare delle conseguenze dei femminicidi sulle famiglie, prima cellula della società”. Tra il 2016 e il 2019 Prandi ha raccolto 13 storie e, accanto a ciascuna testimonianza, ha pubblicato una lettera scritta dalle madri per le figlie scomparse: “Le lettere descrivono la gravità della situazione che stanno vivendo ma sono espressione del loro profondo amore. Sono un atto di resistenza”.
Nel libro la prima storia è quella di Giulia Galiotto. Aveva trent’anni quando è stata uccisa del marito, l’11 febbraio 2009. Il corpo è stato ritrovato nel fiume Secchia vicino Modena dove era stata gettata da un pontile. Perché questo inizio?
SP Mi sembrava importante partire dalle parole che Giovanna Ferrari, madre di Giulia, aveva scritto prima di me in “Per non dargliela vinta. Scena e retroscena di un uxoricidio” (Edizioni Il Ciliegio, 2012) in cui racconta quello che è accaduto a sua figlia, la vicenda processuale e la vicenda dell’assassino. Ma quel libro non è solo un ritratto da madre di una figlia che non c’è più. È una testimonianza importante di quello che succede dopo, nelle aule del tribunale e quando si torna a casa. L’aiuto di Giovanna è stato fondamentale perché mi ha mostrato l’esistenza di un “movimento”, anche se non organizzato, di parenti che reagiscono al femminicidio della propria amata in un modo che sfugge alla narrazione dei media e anche alle istituzioni.
“Le madri e i padri hanno trasformato il privato in politico. Hanno contribuito a superare l’accezione della violenza domestica intesa come una questione personale”
Il dolore delle famiglie rimane ma si trasforma. Le madri hanno dato vita a una forma di “attivismo” e si battono per avere giustizia. Scrivono libri, promuovono iniziative di sensibilizzazione sulla violenza di genere, organizzano incontri nelle scuole. Che cosa sono riuscite a ottenere?
SP La parola “attivismo”, utilizzata nel libro, è controversa perché indica una battaglia per cui si decide liberamente di combattere. In questo caso non c’è stata una scelta volontaria, come sottolineano le stesse madri, perché si è trattato di un’azione in un certo senso subita. Eppure sono molte le famiglie che non smettono di combattere contro l’invisibilità. È una delle cose che mi ha più colpito durante gli incontri: la loro è una forza che non si è mai affievolita negli anni e anche a distanza di decenni dalla scomparsa della persona amata le spinge ancora a chiedere di essere ascoltate. Le madri e i padri hanno trasformato il privato in politico. Hanno contribuito a superare l’accezione della violenza domestica intesa come una questione personale mostrandola per quello che effettivamente è: un problema che riguarda tutti, radicato in una società che ancora considera la vita di una donna inferiore rispetto a quella di un uomo. Le attività dei genitori hanno contribuito in modo significativo ad aprire un dibattito pubblico e a fare crescere la sensibilizzazione sulla violenza di genere. Hanno permesso di ottenere importanti risultati come la legge 4 del 2018 a tutela degli orfani a causa di crimini domestici. Sono “orfani speciali” secondo la definizione coniata da Anna Costanza Baldry, criminologa e docente di psicologia sociale e giuridica presso l’Università Luigi Vanvitelli di Napoli, perché hanno subito il profondo trauma di chi perde allo stesso tempo il padre e la madre. A volte si tratta di bambini che hanno assistito direttamente ai maltrattamenti o alla morte del genitore. La legge è stato un passo importante perché ha stabilito il gratuito patrocinio per la famiglia, l’assistenza medica psicologica per i figli e ha escluso dal diritto alla pensione di reversibilità l’autore dell’omicidio. Ma non è ancora abbastanza.
Nelle testimonianze che ha raccolto emerge il vuoto lasciato dalle istituzioni. I risarcimenti previsti dalla legge 122 del 2016 sul fondo vittime di reati intenzionali violenti, 8mila euro una tantum, faticano ad arrivare perché le clausole sono limitanti. A oggi in Italia solo pochi orfani ne hanno beneficiato. Quali sono le difficoltà che devono affrontare le famiglie?
SP I bambini dovrebbero ricevere supporto psicologico ma spesso le terapie messe a disposizione dalle strutture pubbliche non sono sufficienti e adeguate ad affrontare un trauma così complesso. Sono poi necessarie misure economiche specifiche per le famiglie, spesso quelle della madre, che iniziano a occuparsi dei bambini. Il problema principale di leggi come quella del 2016 è che sono approvate con grande risonanza mediatica ma restano sulla carta per anni perché mancano i decreti attuativi e i fondi promessi non vengono stanziati o sbloccati.
Per quanto riguarda la legge 122 del 2016, è stato finalmente emanato il decreto attuativo 22 novembre 2019 del ministero dell’Interno, entrato in vigore lo scorso gennaio, che prevede che lo Stato risarcisca fino a 60mila euro i figli delle donne uccise dal marito, dal compagno o dall’ex. A luglio 2020 è stato pubblicato il decreto interministeriale per la gestione della ripartizione del fondo destinato agli “orfani speciali”. Prevede 14,5 milioni di euro per il 2020 e 12 milioni all’anno per il periodo 2021-2024. Il 70% delle risorse disponibili sarà destinato ai minori e la quota rimanente ai maggiorenni non autosufficienti dal punto di vista economico. La quota prevista è di 300 euro al mese per ogni minore in affidamento. È una cifra minima. Nonno Domenico, una delle testimonianze del libro, racconta che per prendersi cura dei suoi due nipoti arriva a spendere più di tremila euro al mese.
Quali sono le criticità della legge?
SP Le procedure. La via è quella prevista per il risarcimento alle famiglie che hanno avuto vittime di reati di stampo mafioso. Si indirizza una richiesta alla prefettura che la manda al Commissario per il coordinamento delle iniziative di solidarietà per le vittime presso il ministero dell’Interno. L’iter è complesso e rischia di durare mesi se non anni. Inoltre il comma 2 dell’articolo 16 della norma spiega che a presentare le istanze di accesso ai benefici deve essere il genitore che esercita la responsabilità genitoriale e che, se non dichiarato decaduto, risulta essere il padre in carcere per avere ucciso la madre.
Che cosa le rimane degli incontri?
SP La forza dolorosa delle donne e delle famiglie. Non è vero che chi subisce una situazione di violenza è una vittima passiva che non riesce a denunciare e ad allontanarsi dall’uomo che le picchiava o minacciava. Le storie che ho raccontato parlano di donne che avevano denunciato, che si stavano allontanando dal compagno o che l’avevano già fatto. È la stessa forza che rimane nei genitori. Nelle loro battaglie continuano ad amare le figlie scomparse.
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