Diritti / Approfondimento
Le bombe su Gaza e la complicità di chi esporta armi in Israele. Il caso dell’Olanda
Il 15 dicembre il tribunale civile dell’Aia si è espresso su un ricorso pilota presentato da diverse organizzazioni per i diritti umani che chiedevano lo stop alla fornitura di componenti per i caccia F-35. L’esito non è stato positivo ma il pronunciamento del giudice apre scenari molto interessanti. Il punto della situazione, anche in Italia
Il tribunale civile dell’Aia nei Paesi Bassi ha respinto le richieste di tre organizzazioni per i diritti umani che puntavano a bloccare le esportazioni di armi verso Israele. Il verdetto è arrivato venerdì 15 dicembre, a due settimane dall’udienza sommaria nel primo caso di questo tipo dall’inizio dei bombardamenti sulla Striscia di Gaza. Quel che è accaduto nei Paesi Bassi è emblematico delle battaglie che numerose organizzazioni europee stanno portando avanti per interrompere la complicità degli Stati, sotto forma di esportazioni militari, nelle violazioni dei diritti umani commesse dal Governo Netanyahu.
Il ricorso era stato costruito in tempi record dopo che il quotidiano olandese NRC il 7 novembre aveva rivelato che il governo dimissionario di Mark Rutte avrebbe continuato a esportare materiale d’armamento verso Israele, nonostante, sempre secondo le fonti di NRC, gli stessi funzionari del ministero degli Esteri avessero avvertito che i caccia israeliani avrebbero potuto essere coinvolti in gravi violazioni del diritto umanitario e di guerra. Le organizzazioni per i diritti Oxfam Novib, PAX, e The Rights Forum, con il supporto di Amnesty International e rappresentate dagli avvocati Liesbeth Zegveld e Thomas van der Sommen, avevano perciò deciso di fare causa allo Stato, chiedendo di fermare l’invio di componenti degli aerei militari F-35 dalla base aerea di Woensdrecht, al confine con il Belgio. I caccia sono di proprietà degli Stati Uniti e la struttura olandese funge “solo” da hub per i pezzi di ricambio. Il loro commercio è regolato da una licenza generale fornita dai Paesi Bassi, che la ministra degli Esteri uscente Liesje Schreinemacher avrebbe potuto e potrebbe però sospendere.
Nella sentenza di metà dicembre il giudice ha stabilito che il ministero degli Esteri non è legalmente obbligato a rivalutare l’autorizzazione concessa nel 2016 per l’export di parti degli F-35 alla luce della crisi a Gaza. “Nei settori della sicurezza nazionale e della politica estera, lo Stato ha un ampio margine di manovra e di valutazione”, ha scritto il giudice Hans Vetter. “Siamo molto delusi -spiega Dirk Jan Jalvingh, consulente per le politiche umanitarie di Oxfam Novib-. Da un lato, il Tribunale ha condiviso il nostro caso e ha concordato che ci sono prove delle violazioni del diritto internazionale commesse a Gaza e che gli F-35 contribuiscono ai bombardamenti israeliani”.
La tesi sostenuta in tribunale dall’avvocato dello Stato olandese Reimer Veldhuis ha puntato sul fatto che non fosse possibile stabilire con sicurezza che Israele stesse commettendo violazioni dei diritti umani a Gaza e che utilizzasse gli F-35. In risposta, però, il giudice ha riconosciuto che “a chiunque veda le immagini del conflitto armato, legga i notiziari al riguardo e ascolti le dichiarazioni dei ministri israeliani sembra ovvio che vi siano state violazioni del diritto umanitario”. Il giudice ha ritenuto anche “altamente plausibile” che quegli aerei anche nel caso in cui non vengano direttamente utilizzati negli attacchi israeliani, contribuiscano a “far sì che altri jet militari siano in grado di effettuare operazioni di bombardamento”.
Jalvingh spiega che “lo Stato si è nascosto dietro a una scappatoia legale”, puntando alla necessità o meno di rivalutare le autorizzazioni concesse nel 2016. “Faremo appello perché è una questione di principio: se questa non è una buona ragione per sospendere l’export quale può esserlo? E a che cosa serve il Trattato internazionale sul commercio delle armi?”.
L’avvocata dei diritti umani Zegveld, presentando la causa in tribunale lo scorso 4 dicembre, ha infatti detto che “lo Stato deve interrompere immediatamente la fornitura di parti degli F-35 a Israele”, secondo i principi della Convenzione di Ginevra, della Convenzione sul genocidio e delle regolamentazioni sull’export militare. I criteri contenuti nelle regole europee del 2008 e nel Trattato internazionale sul commercio delle armi (Arms Trade Treaty) sanciscono infatti che le esportazioni devono essere vietate se c’è il potenziale rischio che le armi siano utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto internazionale.
Il giorno in cui gli avvocaci hanno presentato la causa l’aula era affollata: osservatori, giornalisti internazionali ed esponenti della società civile palestinese. Molte persone si sono radunate fuori dal tribunale, alcune munite di cartelloni a sostegno, e hanno accolto con un applauso l’uscita degli avvocati dei diritti umani. “C’era un senso di importanza, di urgenza, che contava davvero che fossimo lì, a prescindere dal verdetto”, racconta l’avvocata Liesbeth Zegveld ad Altreconomia.
“Eravamo riluttanti a fare causa al governo ma questa è davvero l’ultima risorsa che abbiamo per far sì che i Paesi Bassi non siano complici di questo tipo di atti”, riprende Jalvingh. Secondo il giornale NRC, tra il 2004 e il 2020 l’Olanda avrebbe rifiutato di concedere autorizzazioni all’export di armi verso Israele ben 29 volte, perché questo sarebbe stato in contrasto con la politica estera del Paese. Jalvingh individua diverse ragioni per non fermarlo ora, sia geopolitiche sia economiche. “Lo Stato vuole rimanere un partner fidato per gli Stati Uniti, non vuole rischiare di danneggiare le relazioni diplomatiche né con loro né con Israele -chiarisce-, e nemmeno di compromettere il business degli aerei F-35 in futuro”.
A prescindere dal risultato, però, “questo processo evidenzia le preoccupazioni della società civile”, spiega Frank Slijper, che fa parte della Ong PAX. Slijper aggiunge che in pochi giorni la campagna di crowdfunding per finanziare le spese legali “ha portato centinaia di persone a contribuire con decine di migliaia di euro in totale”. Il che è sintomo, secondo lui, del grande supporto della popolazione.
Tanti si sono attivati anche oltre i confini olandesi. In Spagna, ad esempio, a fine ottobre il Centre Delàs, un centro di ricerca indipendente su temi legati al disarmo e alla pace, ha lanciato un appello per l’embargo di armi a Israele. Un blocco in tutte e due le direzioni è stato chiesto anche da Katie Fallon, responsabile dell’advocacy per l’organizzazione inglese Campaign against arms trade (Caat). A inizio dicembre Fallon ha accusato il Regno Unito di essere “complice delle più gravi violazioni dei diritti umani”, proprio per via della mancata sospensione alle licenze per le esportazioni militari a Israele.
Da parte sua, il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto ha dichiarato pubblicamente che il governo italiano avrebbe sospeso “la vendita di armi a Israele”. La presa di posizione è arrivata il 15 novembre, a seguito di un dibattito in Parlamento. Diversamente dal caso olandese, il nostro Paese esporta munizioni e sistemi d’arma prodotti direttamente da aziende italiane.
La decisione di sospendere “la vendita” sarebbe stata assunta dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento presso il ministero degli Esteri (Uama), che però non ha rilasciato alcun annuncio ufficiale. Uama avrebbe preso questa decisione in conformità alla legge 185 sull’export di armi del 1990, che stabilisce che questo vada sospeso in caso il Paese di arrivo sia impegnato in un conflitto armato. Contattata sul punto da Altreconomia, la segreteria di Uama, oggi guidata dal ministro plenipotenziario Alberto Cutillo, non ha voluto però rilasciare ulteriori informazioni.
L’annuncio di Crosetto lascia molte questioni aperte. “Non è chiaro se Uama abbia fermato la concessione di nuove licenze o anche l’invio delle armi già autorizzate ma non ancora consegnate” spiega ad Altreconomia Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete italiana pace e disarmo. La prossima mossa della società civile sarà quindi un’interrogazione parlamentare per capire i dettagli della sospensione. “Per la revoca delle autorizzazioni già concesse occorre un decreto del ministero degli Esteri, che a oggi non risulta ancora essere stato reso noto”, aggiunge Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (OPAL) di Brescia.
Un punto di domanda rimane anche su che cosa l’Italia abbia effettivamente fornito a Israele negli ultimi anni. Beretta spiega che dai dati forniti nelle Relazioni sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento presentate negli anni dai governi al Parlamento Camera non si può sapere nel dettaglio quali tipologie di materiale militare sia stato nel tempo inviato in un determinato Paese. Ciò che si sa, al netto di macro-categorie, è il totale delle esportazioni verso Israele: 9,3 milioni di euro nel 2022; 12,4 milioni nel 2021; contro i 21,4 e 28,7 milioni di 2020 e 2019. Fanno 70 milioni di euro in quattro anni.
Anche Beretta non crede che l’export di armi sia riducibile a una questione meramente economica. Israele, infatti, non pesa molto sulla bilancia delle esportazioni militari italiane: nel 2022, mentre le esportazioni verso Israele si attestavano a 9,3 milioni, l’Italia esportava un totale di 5,3 miliardi di euro in materiale militare. La loro rilevanza si attesta più su un piano geopolitico, riflette Beretta, cioè nella volontà di allinearsi alle politiche degli Stati Uniti, che hanno offerto immediato supporto a Israele e che l’8 dicembre hanno nuovamente posto il veto sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiedeva un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. “L’invio di armi è uno dei pochi strumenti che gli Stati hanno per dare un segnale chiaro e forte a Israele che le sue azioni sono fuori dal diritto internazionale -conclude l’analista di Opal nonché autore de ‘Il Paese delle armi’ per i tipi di Altreconomia-. La vendita di armamenti ci rende complici di questi crimini, gli stiamo dando gli strumenti per commetterli”.
Le conseguenze sono drammatiche, come sa bene Oxfam Novib, che vive la situazione in Palestina. “Abbiamo 32 colleghi a Gaza -dice Jalvingh-: molti sono stati sfollati, la loro casa distrutta, con amici e parenti uccisi. È importante che non ci si dimentichi dell’aspetto umano. Non si tratta solo di una discussione teorica sul diritto internazionale ma della vita delle persone”.
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