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Ambiente / Attualità

L’azione della “Rete legalità per il clima” contro gli allevamenti intensivi in Italia

© Essere animali

Il network di giuristi e avvocati, in rappresentanza di 38 associazioni, ha avviato un’istanza al Punto di contatto nazionale per verificare se le multinazionali attive nel settore stanno effettivamente rispettando le linee guida dell’Ocse, in particolare rispetto alle emissioni inquinanti e climalteranti

L’obiettivo è aprire una procedura che porti le multinazionali attive nel settore degli allevamenti intensivi in Italia a rilasciare informazioni trasparenti sugli impatti climatici causati dalla loro attività. Per ottenerlo la “Rete legalità per il clima” (che unisce giuristi e avvocati esperti di diritto climatico) ha presentato, il 6 dicembre 2021, un’istanza al Punto di contatto nazionale (Pcn), cioè l’organo del governo italiano che deve garantire che siano applicate le linee guida dell’Ocse destinate alle corporation. L’azione mira a verificare se le grandi imprese stanno rispondendo a tali obblighi, in materia di tutela dell’ambiente e dei diritti umani, ed è volta ad approfondire il “peso” degli allevamenti intensivi nell’emergenza climatica. Questi, infatti, sono responsabili di ingenti emissioni di gas serra e in particolare di metano e biossido di azoto.

“Il primo fine che ci siamo posti è fare luce su un comparto il cui impatto sul cambiamento climatico è evidente ma su cui sono assenti dati precisi e chiari. Nel Paese il settore già soffre della mancanza di controlli sistematici. È poi difficile riuscire a ottenere, quando sono presenti, dati disaggregati sulle emissioni di gas climalteranti causate dagli allevamenti”, spiega ad Altreconomia l’avvocata Veronica Dini che sta seguendo la procedura insieme all’avvocato Luca Saltalamacchia e a Michele Carducci, docente di Diritto pubblico comparato presso l’Università del Salento. “Una situazione su cui vogliamo intervenire”.

Nell’ottobre 2021 la “Rete legalità per il clima” ha inviato istanze di accesso civico generalizzato alle Regioni chiedendo dati sulle procedure di monitoraggio riguardanti le aziende che gestiscono gli allevamenti intensivi. In un secondo momento sono stati selezionati i soggetti principali operanti nel settore cui è stata inviata una pec richiedendo informazioni relative alla loro attività, alle emissioni di gas climalteranti prodotte e alle misure adottate per mitigarle. Nessuna ha risposto. Da qui la rete si è rivolta al Pcn: l’azione è stata avviata sul presupposto che gli allevamenti intensivi di bestiame, soprattutto bovino, costituiscono una rilevante fonte antropogenica di inquinanti atmosferici e climalteranti, causando danni su ambiente e salute.

Secondo l’Istituto per la protezione e ricerca ambientale (Ispra), in Italia gli allevamenti intensivi sono responsabili del 7% delle emissioni di gas serra e rappresentano la seconda fonte di inquinamento, dopo il riscaldamento domestico e aziendale. Circa l’80% delle emissioni deriva dagli allevamenti di bovini e il 10% da quelli suini. Segue l’utilizzo dei fertilizzanti sintetici. La parte consistente delle emissioni è causata dalla fermentazione enterica, in particolare nel caso dei ruminanti, e dalla gestione delle deiezioni.

L’apporto più rilevante riguarda l’ammoniaca, uno dei principali precursori dell’inquinamento da particolato. Secondo i dati Arpa regionali, il settore agricolo-zootecnico ha contribuito nel 2017 al 64% delle emissioni di metano, all’82% delle emissioni di biossido di azoto e al 97% delle emissioni di ammoniaca in Lombardia. In Emilia-Romagna le emissioni di ammoniaca derivavano per il 59% dall’allevamento di bovini da cui dipende anche il 57% delle emissioni di metano. Da qui secondo la Rete, che sta agendo in rappresentanza di 38 associazioni e comitati cittadini, la necessità di sollecitare azioni concrete da parte delle aziende del settore per fare in modo che le emissioni siano ridotte e contenute.

I ricorrenti hanno già portato all’attenzione del Pcn alcune violazioni delle linee guida dell’Ocse: queste definiscono un insieme di standard di condotta, conformi ai principi guida delle Nazioni Unite, in relazione ad ambiti come la trasparenza delle informazioni, il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente, la tutela del consumatore, la promozione dello sviluppo e l’applicazione delle conoscenze scientifiche. “Non rispondendo alle nostre richieste, le aziende cui ci siamo rivolti non hanno rispettato il dovere di trasparenza delle informazioni”, spiega Dini, impedendo così di verificare altre possibili inadempienze. “Inoltre ad oggi non è possibile sapere se le aziende in questione stanno effettivamente utilizzando strumenti per ridurre gli impatti degli allevamenti intensivi”. La Rete teme che non stiano valutando in modo adeguato i rischi connessi alle loro attività e che ometterebbero di adottare misure idonee a mitigarli o eliminarli.

“Il Punto di contatto nazionale ha 30 giorni di tempo per avviare la pratica e rivolgersi alle aziende coinvolte invitandole a prendere parte alla procedura. Decideranno se sedersi al tavolo con noi. Nel caso in cui non ci sia nessuna forma di dialogo, potremmo procedere in sede giudiziaria, ordinaria”, aggiunge Dini. “Tuttavia ci auguriamo che si apra una procedura di mediazione. Auspichiamo che le aziende avviino un confronto che sarà centrale per la tutela della nostra salute e dell’ambiente, e per l’intero settore produttivo”.

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