Crisi climatica / Opinioni
L’ambientalismo condizionato dei partiti populisti di destra
Le politiche ecologiche vengono sostenute solo nella misura in cui non danneggiano altri interessi, prevalentemente economici. La rubrica a cura dell’Osservatorio internazionale per la coesione e l’inclusione sociale (OCIS)
La politica ambientale dei partiti populisti al potere in diversi Paesi europei è piena di incoerenze. Viene da chiedersi se siano l’ideologia o le opportunità politiche a determinare le loro decisioni su questo argomento. L’ideologia dei populisti di destra sulle questioni verdi appare come un ambientalismo “condizionato” o un “sì, ma”: la modernizzazione ecologica è supportata -o meglio accettata- nella misura in cui non danneggia il sistema (prevalentemente economico) di interessi. Tuttavia una volta al potere i populisti diventano meno radicali, allontanandosi dal negazionismo.
Il cosiddetto “ecologismo di estrema destra” del XXI secolo, che integra anche la prospettiva populista, riunisce infatti modelli eclettici ma ideologicamente collegabili: agricoltura familiare su piccola scala, nazionalismo per il welfare animale, autarchia energetica, primitivismo tecnologico. Tuttavia, l’attenzione di tutti questi partiti verso l’ambiente è significativamente motivata anche da ragioni strategiche: la crisi climatica e l’interesse degli elettori più giovani per questi temi, i finanziamenti alle politiche di transizione energetica e le opportunità di investimento.
Prendiamo tre casi rilevanti di populismi di destra al potere: Diritto e giustizia (PiS) in Polonia, Lega in Italia e Fidesz in Ungheria, tutti partiti al governo in posizione di maggioranza, alcuni da molto tempo. La Polonia è fortemente dipendente dal carbone, il che ha determinato la spinta del PiS verso il “carbone pulito”, tanto che il partito ha persino organizzato nel 2022 a Varsavia un vertice internazionale su carbone e il clima parallelamente alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
In Italia c’è stata una significativa mobilitazione dal basso degli studenti del movimento Fridays for Future, che hanno esercitato una crescente pressione sui partiti politici affinché agissero per contrastare il cambiamento climatico. L’Ungheria spinge da tempo per investimenti nel settore energetico, in particolare legati alla centrale nucleare di Paks. Se si guarda al contenuto dei programmi elettorali e ai discorsi dei loro leader si notano molte somiglianze: al centro la necessità di proteggere l’ambiente nella misura in cui vengono soddisfatti altri aspetti, soprattutto economici.
Secondo le stime del think tank Ember nel 2022 il 69% dell’energia elettrica della Polonia è stata prodotta da centrali a carbone. Le rinnovabili pesano solo per il 21% nel mix energetico del Paese
Pertanto, i parchi solari sono accettabili se non impattano sull’agricoltura, le tasse sul carbonio sono accettabili se non danneggiano economicamente le persone e la riduzione degli imballaggi è accettabile se non espone le imprese nazionali a maggiori costi. Questo ambientalismo condizionato è giustificato principalmente attraverso un’autoproclamata cura “metodica” e “razionale”: un ambientalismo tecnocratico che utilizza statistiche spesso selezionate come prova per sostenere le ragioni sostenute.
Soprattutto i suoi sostenitori si presentano come antidoto a quello che considerano l’ecologismo emotivo, fastidioso e irrealistico dei verdi (o dei movimenti). Negli anni a venire, il loro ambientalismo condizionato potrebbe non portare i populisti a sostenere le questioni verdi, mentre la loro inclinazione tecnocratica “sì, ma” continuerà a influenzare la politica ambientale nazionale e internazionale, ponendo una sfida alla transizione fondamentale e radicale che la crisi climatica richiede.
Manuela Caiani insegna Scienza politica presso la Scuola Normale Superiore. Si occupa di movimenti sociali e populismo. Balša Lubarda è direttore della ricerca all’Istituto Damar in Montenegro
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