Altre Economie
L’altra Sardegna
Nell’isola colpita da nubifragi, cementificazione e crisi del turismo, piccole realtà agricole e artigianali danno vita a filiere di autosviluppo ecologico —
“Il guado, vorrei che tornasse in Sardegna”. Il guado è l’antica pianta Isatis tinctoria L., adatta a tingere stoffe e pareti, fuori dalla petrolchimica. Chi lo rivuole sull’isola è Anna De Col, che da tempo con il marito fa l’apicoltrice e trasforma erbe aromatiche dai cespugli odorosi, piantati ovunque nel loro terreno a Villamassargia (CI). Per passione fila sciarpe colorandole con erbe tintorie e altri vegetali: “Intorno alla tintura inizia a esserci un movimento di persone interessate e penso che alla fine potrebbero anche crearsi opportunità di lavoro a titolo principale” continua, drappeggiando una sciarpa giallo-arancio colorata con bucce di cipolla, in uno dei tanti incontri organizzati dal Centro sperimentazione autosviluppo (Csa) di Iglesias.
La Sardegna del mare smeraldo e delle vestigia antiche è afflitta da nubifragi e incendi, cementificazione e crisi del turismo, chiusura delle miniere e inquinamento da basi militari, disoccupazione e abbandono dell’agricoltura (“l’80% di quello che si mangia qui è importato…” dicono). Ma in quest’isola, piccole realtà agricole e artigianali si sono messe in rete e assumendo la sfida di far crescere filiere di autosviluppo ecologico.
Con vantaggi inaspettati.
Il giovane perito agrario e coltivatore Marco Maxia di Selargius (CA) spiega volentieri la storia dei capperi selargini che hanno fatto da vigili del fuoco, l’estate scorsa. Come, scusa? “I terreni dove crescono gli arbusti di cappero -ma ne abbiamo di vecchi ed enormi- , devono essere ben puliti. Così, quelle piccole strisce glabre per ben tre volte hanno fermato il fuoco che nella campagna abbandonata stava avanzando e avrebbe potuto arrivare fino alla zona industriale. Le campagne assistite sono un presidio. Anche contro le inondazioni. Certo in novembre ha piovuto tanto, ma terreni coltivati avrebbero assorbito parecchia acqua, rallentandone la velocità e i danni”. A Selargius dieci anni fa il 95% degli arbusti di capperi (più leggeri di quelli siciliani, ma alla fine voluminosi oltre che ottimi) era abbandonato; ora sono quasi tutti recuperati e rinomati. Marco ha in affitto e comodato 700 piante; il reddito gli deriva dall’integrazione fra varie attività agricole. Per i capperi sono stati importanti i mercati contadini di Campagna amica, un modo per farsi conoscere anche dai gruppi d’acquisto (che però lui trova un po’ “stagnanti”). Le istituzioni hanno aiutato poco, ma la Provincia ha dato fiducia.
Potrebbero sembrare colture -e culture- di nicchia, queste. Come lo zafferano, che però in Afghanistan è proposto addirittura per sostituire la redditizia coltura dell’oppio. Manuela Atzori è tornata da Milano pronta a “cambiare treno e vivere con poco”, e a recuperare “una coltura che in Sardegna è millenaria: tutti facevano lo zafferano, che ha proprietà incredibili fra l’altro”. Nel Sulcis, dove sta anche recuperando cereali e legumi antichi, Manuela è agli inizi, al terzo anno di raccolta della preziosa spezia. Per la vendita degli stimmi una mano decisiva la dà il Csa con la sua rete e le sue manifestazioni.
Spiega Laura Serra del Csa, ex insegnante di Gonnesa in pieno parco minerario: “Da anni cerchiamo di fare rete per il cambiamento, coinvolgendo per quanto possibile le istituzioni e mettendo in contatto diretto gli attori del territorio. Ad esempio all’ultimo incontro, a Masainas, centrato su cibo locale, grano e biodiversità, un gruppo di partecipanti che avevano terreni liberi a Calasetta ha chiesto di poter seminare cereali di varietà antiche e locali. E Samuel, un giovane agricoltore biodinamico, se ne sta occupando”.
Eccolo Samuel Caboni, studi di agronomia in Germania, mamma e moglie tedesche, 5 ettari (oltre a un bed&breakfast) vista mare a Masainas, fornitore di gruppi d’acquisto: “Stanno aumentando i terreni resi disponibili per questo recupero di cereali dalle tante proprietà nutrizionali e organolettiche. Ne ho seminati anche io, per adesso a titolo sperimentale”.
Samuel è entusiasta ma sa che le rese saranno inferiori a quelle tradizionali, anche se i costi di lavorazione e input potranno essere inferiori. Come far quadrare il cerchio, visto che già l’agricoltura non dà grandi redditi? Primo, “bisogna trasformare il prodotto in azienda il più possibile, ricavarne farina, pasta, pane”, e se le strutture necessarie costano, si tratta di ottenere crediti e credito nel quadro dei piani di sviluppo rurale. Secondo, “bisogna arrivare direttamente ai consumatori, farsi conoscere, far capire che quel cibo è meglio…”.
Lo ha capito, a Nuoro e dintorni, il gruppo d’acquisto solidale Pira Camusina che ha deciso di “comprare quasi solo quel che cresce nel nostro territorio sardo… ormai al supermercato prendiamo ben poco… cose come la carta igienica per la quale non abbiamo alternative; per ora”. Poi il Gas nuorese si è anche lanciato in una parziale autoproduzione di grano: un campetto seminato a monococco, varietà locale, e raccolto con il falcetto in un giorno di sudata festa.
“L’autonomia, per comprenderla bisogna praticarla; così si intende anche la fatica di chi deve davvero campare di agricoltura”.
Anche a uscire dal cibo, le reti di autosviluppo sarde hanno spesso precorso i tempi. Maria Giusta Portas, del circuito di ospitalità Domus Amigas (www.domusamigas.it), fu fra le pioniere della produzione di mattoni in terra cruda, a Musei; adesso fioriscono progetti anche da parte di enti pubblici. La stessa arte dai legni spiaggiati e da altre res derelictae, si è sviluppata in quel contesto. Francesca e Massimo di Is femmineddas (“piccole donne” in sardo, www.isfemmineddas.com), a Siliqua, ricavano da questi legni già colorati e stinti degli splendidi oggetti, animali soprattutto (anche utilitari, a forma di sgabelli, scaffali, portabiti, promemoria…): “Abbiamo cominciato circa una decina di anni fa, realizzando oggetti per noi. Da quattro anni abbiamo aperto partita Iva e siamo ufficialmente artigiani. Questo fatto ci ha dato l’accesso a possibilità che prima ci erano precluse, come la partecipazione a grosse manifestazioni fieristiche, e l’interesse di vari negozi a commercializzare gli articoli. I canali di vendita sono il nostro negozio, le fiere e la vendita ai negozianti. Se ne ricaviamo un reddito? Ovvio: questo ormai è il nostro lavoro”.
Nelle reti animate dalle donne sarde ci sono poi due attori, anzi soprattutto attrici importanti che ricadono nella pura economia del dono. Dove non si compra né si vende. Intanto le mamme della Leche League, la lega per l’allattamento naturale. Come Cinzia, che vorrebbe proporre azioni dirette non violente contro l’inquinamento provocato dalle basi militari, dai poligoni di tiro e dalle altre servitù alle quali è sottoposta l’isola: “Dovremmo occuparle insieme ai nostri figli piccoli, assaltarle allattando”. E come le curatrici e i curatori tradizionali, di ustioni e altri dolori, con erbe e pozioni (si veda il libro “La luna calante” di Nando Cossu). Al massimo, accettano pacchi di caffè. Magari equo. —
La grande sfida
L’associazione sarda “L’uomo che pianta gli alberi” (che si ispira al protagonista del quasi omonimo libro di Jean Giono) promuove “La Grande Sfida”. “Ora più che mai il territorio della Sardegna è devastato, prima con gli incendi e poi con l’alluvione, non per fatalità, ma per colpa dell’ignoranza umana”. La Grande Sfida però si rivolge a tutta l’Italia. Sarà portata avanti fino in primavera e tutti -anche scuole, uffici, comuni- possono aderire, piantando alberi nelle proprie realtà. I partecipanti (contattare luomochepiantaglialberi@gmail.com) saranno inseriti in un registro. Soprattutto nelle zone colpite dagli incendi in Sardegna si metteranno a dimora alberi e arbusti, ma anche pianteranno palline di argilla contenenti semi di piante della macchia mediterranea: mirto, corbezzolo, fillirea, carrubo, ginepro.