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La vittoria di Lula in Brasile e quel rinnovato futuro di cammino e di lotta per i popoli

© Tutz Dias - Unsplash

Un piccolo e decisivo 1% separa l’allegria infinita dalla corruzione e impunità istituzionale, scrive Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunale permanente dei popoli. Riuscirà il presidente rieletto a costruire un’alternativa solida al modello estrattivo dominante che aveva fatto di Bolsonaro il suo brutale esecutore?

Non penso certo di poter aggiungere nulla alle tante e diversissime voci che hanno accolto l’elezione di Lula come vittoria su un incubo e come apertura di un tempo in cui pensare a un futuro diverso non sia più proibito. A un progetto che è vitale, non solo per i popoli -tanti e diversi- del Brasile, ma per tutti quelli di un mondo globale che sognano di poter vivere almeno la stessa opportunità, purtroppo senza neppure la speranza di un confronto elettorale.

Un piccolo e decisivo 1 % separa e riassume una situazione che è centrale nella situazione che stiamo vivendo: da una parte l’allegria infinita, piena di lucidità e fantasia, di un popolo che concretamente e simbolicamente ha scelto di ritornare a essere soggetto del proprio futuro. La creatività tutta al femminile di Marina Silva rappresenta, anche ricordando l’assassinio di Marielle Franco, una componente essenziale del futuro da costruire. Dall’altra la permanenza, piena di minacce, di una realtà che ha scelto di sostenere un passato non disposto a riconoscere di essere stato il tempo e lo strumento che hanno violato, senza limiti, i diritti più fondamentali soprattutto di coloro che più erano esposti alla violenza delle minoranze sociali e politiche nelle quali si era concentrato il potere economico e che avevano trasformato il Paese in un modello anche internazionalmente riconosciuto di negazione delle misure più elementari di rispetto dell’ambiente e delle regole di una società civile. Favorendo e promuovendo la più sistematica impunità della corruzione istituzionale. La voce roca del primo discorso di Lula, nella sua appassionata chiamata di tutte e tutti a ritrovare il senso, l’impegno, l’urgenza di ricostituire la dignità di una democrazia all’altezza di questo nome esprime fino in fondo quanto sono imprescindibili i cambiamenti, e quanto è difficile il cammino da fare.

Il Brasile che ha dato a Lula una maggioranza tanto significativa quanto concretamente ed istituzionalmente precaria si presenta infatti come la sperimentazione di un progetto che non è solo di quel Paese: la necessità-possibilità di non subire la pretesa della “non-comunità” globale di guardare al futuro -dalla ennesima Conferenza Onu sul clima in un Paese modello di dittatura, all’accordo indiscusso sul non riconoscimento dei migranti-espulsi-rifugiati- senza cambiare le regole del gioco. La logica “estrattiva”, delle risorse strategiche e del lavoro umano, non prevede i popoli come soggetti inviolabili della loro vita e del loro diritto ad una autodeterminazione al servizio dei più marginalizzati e di una natura che non sia puro oggetto di consumo. La promessa-impegno della non deforestazione dell’Amazzonia è in questo senso il test, molto concreto e simbolico, di una strategia che va contro la centralità della logica-economia “estrattiva” che sembra la regola inviolabile che fa della natura e degli umani risorse da sfruttare con la stessa e complementare violenza ed impunità. La sfida che sembrava incredibile ed era diventata una delle realtà dei primi mandati di Lula – vincere la fame fino a farla apparire come un incubo del passato- si rinnova a un livello che coinvolge in modo ancor più decisivo e drammatico non solo il Brasile ma un modello di sviluppo che su scala globale viene giudicato intoccabile.

Quale sarà la posizione degli Stati -e della loro rigorosissima alleanza-connivenza con i poteri delle loro corporation e agenzie economiche- che oggi si congratulano, dagli Stati Uniti all’Unione europea fino alla Cina, per aver sconfitto l’intollerabilità arrogante e impresentabile di Bolsonaro (“uno” dei tanti dittatori che sono protagonisti della politica ufficiale del mondo globale)? Le guerre, economiche ed armate, occupano attualmente e sempre di più gli scenari di futuro: la democrazia costituzionale (senza parlare della pace che è termine proibito anche solo come ipotesi: da lasciare alle parole di un papa che dichiara impensabile un ruolo politico degli schieramenti “religiosi” che tanto peso hanno avuto in Brasile, o alla buona volontà dei “movimenti” di cui si ignora e si reprime la rappresentatività) è divenuta una opzione declamatoria e assolutamente secondaria. Anche nell’ordine internazionale degli Stati. Dalle Nazioni Unite, all’Unione europea, all’Asean. L’1% della democrazia che ha vinto in Brasile deve affrontare le perfettamente note percentuali di diseguaglianza, povertà, concentrazione dei poteri economici e militari che vengono riconosciute al massimo come “effetti collaterali”: non evitabili, utili per essere citate nelle raccomandazioni come dimostrazione della conoscenza dei problemi e della loro mai urgente traduzione in “obiettivi di sostenibilità” definiti dall’alto e modificabili nel rispetto dei disequilibri esistenti.

Nel suo piccolo, e proprio nel Brasile di Bolsonaro, il Tribunale permanente dei popoli in due delle sue ultime sentenze -sui popoli del Cerrado e sulla responsabilità personale e istituzionale di Bolsonaro nella gestione della pandemia contro i diritti delle popolazioni indigene e quilombolas- ha reso visibile la necessità-possibilità di considerare i crimini di ecocidio e di genocidio come strettamente collegati.

Il futuro del Brasile, al proprio interno, e nello scenario globale, è in questo senso una sperimentazione che interessa a fondo tutto il mondo. Diventerà un laboratorio di collaborazione rinnovata? La domanda è tanto più legittima quanto più tocca direttamente anche altre realtà importantissime in America Latina (che faticano a trovare a livello internazionale una “simpatia” non fatta di diffidenza): quella della Colombia che ha la sua prima democrazia dopo un genocidio durato 70 anni; quella del Cile, che non può essere “sepolta” dagli esiti di un referendum politicamente mal condotto. Da che parte starà, per ricordarci di essere in un’Europa a rischio di scomparire come attore internazionale, l’Unione europea?

La considerazione della vittoria della democrazia in Brasile come parte ed espressione di uno scenario globale non significa guardarla con un supplemento di difficoltà o tanto meno di pessimismo. La novità dello scenario che si è creata in Brasile è enorme. E la maggioranza “risicata” che ha la responsabilità di gestire le sfide aperte deve essere considerata come un evento da accompagnare con un interesse accresciuto, e “a priori” totalmente positivo. Le garanzie perché il percorso definito dalla alleanza che Lula è riuscito a creare si realizzi sono quelle che caratterizzano una sperimentazione di civiltà in un contesto molto più difficile oggi di quello che caratterizzava i primi mandati. Non ha senso pretenderne una valutazione in giorni in cui la gioia di una vittoria di democrazia -e di ripresa della parola da parte di un popolo uscito da un incubo- è il fatto più importante da condividere, per ritrovare la possibilità di dare ai sogni le loro radici nel quotidiano. Il Brasile di questo popolo è l’unica vera garanzia.

Come in tutte le lotte di liberazione che si affacciano su un futuro da costruire, i modi di indicare il cammino trovano la loro espressione più autentica nelle parole che si fanno ritornelli da ripetere e cantare per dare all’ignoto il ruolo che Galeano dava all’orizzonte: non si può definire come un programma predeterminato, con tappe e scadenze precise. Esiste per non stancarsi, né illudere, nel camminare. Ho trovato in questi giorni, di timore e di allegria, tra le tante “manifestazioni” che hanno riempito le strade anche delle città nelle quali l’1% era “contro” due di queste parole-ritornello, che non hanno bisogno di commenti, e che è bello condividere. Le si lascia come sono state formulate, scritte a mano, come un biglietto da scambiarsi per portarselo ovunque: “O fascismo sussurrou em nosso ouvido: ‘voce nao e forte o suficiente para resistir a tempestade’. Hoje sussurramos no ouvido do fascismo: ‘Nos somos a tempestade’. Eles tentaram nos enterrar, más nao sabiam que eramos sementes”.

Di queste parole che diventano memoria e progetto è stata fatta anche la resistenza, delle donne e dei partigiani, nella resistenza da cui sarebbe nata la nostra Costituzione: tanto bella quanto incredibile dopo tanta guerra. Ma solo se e fino a quando rimaneva un cammino. È l’augurio al Brasile di Lula, e delle tante bellissime Marielle, e di Marina, e delle comunità dell’Amazzonia e del Cerrado. Insieme agli auguri, ricordati in modo esemplare in un libro che Benedetta Tobagi ha pubblicato proprio in questi giorni alle donne della resistenza che si affacciavano a un futuro che non era di riposo, ma di cammino e lotta: disincantato. E per questo vincente.

Gianni Tognoni, ricercatore in alcuni dei settori più critici della sanità, con progressiva concentrazione sugli aspetti di salute pubblica e di epidemiologia della cittadinanza. È segretario generale del Tribunale permanente dei popoli

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