Altre Economie
La stagione amara dei meloni
Nel mantovano, tra Sermide e Magnacavallo, la raccolta coinvolge 4mila lavoratori stagionali, soprattutto migranti —
Il sermidese è terra di confine, quell’angolo di Lombardia che s’incunea tra Veneto ed Emilia-Romagna. Lungo le anse del fiume Po, qui s’incontrano le “zone marginali” delle province di Mantova, Rovigo, Ferrara e Modena, “periferie distanti dal controllo centrale” racconta ad Ae Elena Magri, assessore provinciale a Mantova con delega -tra le altre- a Politiche per la legalità e Immigrazione, e referente provinciale per Avviso Pubblico, l’associazione di enti locali e regionali per la formazione civile contro le mafie.
La incontriamo dopo aver ricevuto una sua e-mail dall’oggetto esplicito: “Richiesta supporto situazione caporalato nel mantovano”. Nel testo, un riassunto di ciò che succede nelle zone attorno a Sermide e Magnacavallo, due comuni dove la Pianura padana diventa un’immensa piantagione di meloni, cocomeri (e un po’ di cipolle): “Pochi imprenditori, coltivazioni estesissime e intensive” racconta Magri, ma soprattutto numeri fuori dall’ordinario per quanto riguarda le quote d’ingresso per lavoratori stagionali extra Ue. “Cittadini stranieri che dormono ovunque, nelle stazioni dismesse, nei fossi, anche nei loculi del cimitero” aggiunge l’assessore. Sono circa 4mila gli stagionali, ma la loro presenza è un “non problema”. Nessuno, quindi, può permettersi di paragonare la Pianura Padana a Rosarno, in Calabria, o a Venosa, in Basilicata. E non può farlo, a maggior ragione, ora che il melone ha portato Mantova in Europa: a maggio, infatti, l’Ue ha accolto la richiesta dell’indicazione geografica protetta (Igp), avanzata nel 2007 dal Consorzio del melone mantovano (www.melonemantovano.it).
Eppure, quest’estate del 2013 potrebbe essere ricordata come quella che ha portato il mantovano nel Sud Italia. “I problemi sono di due tipi -spiega la Magri-, e riguardano le condizioni di lavoro nei campi, e la legalità”. Quest’ultimo è un nodo legato a filo doppio con la legge Bossi-Fini: ogni anno, infatti, un decreto della presidenza del Consiglio dei ministri stabilisce i “flussi”. Secondo quello approvato nel febbraio del 2013, l’Italia può accogliere 30mila stagionali da 23 Paesi (dalla a di Albania alla t di Tunisia). Nel 2012, in tutta la Lombardia era previsto l’ingresso di 1.310 persone, e tra queste ben 815 erano “assegnate” al territorio della provincia di Mantova, “e solo 40, per dire, a quella di Cremona, che per tipologie di produzione, il melone e il pomodoro, ha una struttura simile” spiega Vittorino Marinoni, dell’Anolf-Cisl (Associazione nazionale oltre le frontiere, www.anolf.it). Un documento della prefettura di Mantova, rilasciato il 20 dicembre 2012 su richiesta di Marinoni specifica che -durante l’anno- solo 301 di quelle 815 “quote” erano state sfruttate, “e molte meno sono i migranti che hanno un vero contratto di lavoro, tra il 20 e il 30 per cento” racconta Claudia Miloni della Cgil Mantova.
È a partire da questi numeri (“Anche se averne di certi è difficile”) e da una domanda (“Che ne è di tutti questi migranti?”) che Cisl, Cgil e Provincia di Mantova hanno aperto un tavolo informale per affrontare il problema dell’immigrazione stagionale nel sermidese: “Il Consiglio territoriale sull’immigrazione non funziona -spiegano all’unisono Magri, Marinoni e Miloni-. Le associazioni datoriali si siedono in un angolo e controllano la discussione, senza partecipare: non sono disposti a tagliare sulle ‘quote’”. L’hanno anche messa in gazzarra, come se la richiesta dei due sindacati fosse una scelta razzista, volta a privilegiare i disoccupati italiani.
Invece l’equazione è semplice: più immigrati stagionali che contratti significa che c’è concorrenza, che nel mantovano ci sono molti (stranieri) disposti a lavorare, anche accettando condizioni di lavoro al limite dello sfruttamento. “Le nostre organizzazioni gestiscono i patronati, gli sportelli per l’immigrazione, aiutano i migranti con le pratiche per i ricongiungimenti familiari o per l’assegno di disoccupazione -spiega Ruggero Nalin, segretario provinciale degli agricoli della Cgil, la Flai-. Leggendo le buste paga, e ascoltando i loro racconti, ci rendiamo conto che c’è una evasione contrattuale e contributiva”. Quanto sostiene Nalin significherebbe che le ore segnate sono sempre meno di quelle effettivamente lavorate, come anche i giorni: “E in ogni caso, il contratto provinciale per l’agricoltura, che è scaduto da un anno e mezzo, non è stato ancora rinnovato (al 22 luglio 2013, ndr), e le posizioni tra sindacati e associazioni di categoria sono ancora distanti -aggiunge Nalin-: l’operaio comune guadagnava 8,67 euro l’ora, gli addetti alla raccolta poco meno di otto. Chiediamo un aumento del 5,5%”.
Chiedono anche, Cgil e Cisl, di bloccare i “flussi” nel mantovano. Per frenare il fenomeno finché è possibile, fino al giorno in cui un evento trasformerà lo sfruttamento del lavoro in un problema di ordine pubblico. E quella data si avvicina: l’ingresso delle cooperative ha cambiato la geografia dello sfruttamento, anche a Sermide e Magnacavallo. “Per legge, il datore che firma un contratto di lavoro stagionale deve garantire all’immigrato anche un alloggio. Oggi, molti ‘affittano’ la manodopera da cooperative di marocchini, di russi, di moldavi. In questo modo, i proprietari delle aziende agricole sono esonerati”, racconta la Magri, che però è indignata: “Che ne è della Guardia di Finanza, dei Carabinieri, che in lunghi anni non hanno saputo verificare, controllare? Che ne è delle Asl, che dovrebbero verificare l’agibilità delle abitazioni che ospitano i migranti?”.
Nella primavera del 2013 quattro migranti marocchini hanno saputo che il loro contratto non sarebbe stato rinnovato per questa stagione. Svolgevano quel lavoro da una decina d’anni. Alcuni avevano portato le famiglie in Italia. “Il datore disse loro che aveva riorganizzato l’attività. In realtà, il loro posto è stato preso da lavoratori di una cooperativa” racconta Nalin. Fatto sta che i 4, in compagnia di una sindacalista della Cgil, si sono recati dai Carabinieri, per sporgere una denuncia “che non è stata accolta in quel momento -racconta Claudia Miloni-: i migranti avrebbero dovuto essere ricontattati per tornare in un altro momento, ma questo non è mai successo”.
Grazie ai sindacati, il “caso di Sermide” arriva sui giornali locali. E scuote le amministrazioni: il sindaco del Comune chiede al Prefetto di convocare il Consiglio territoriale per l’immigrazione. “La riunione c’è stata il 3 aprile -mi spiega un funzionario della Provincia di Mantova-, ma non ne abbiamo mai ricevuto il verbale”.
Elena Magri invece ha “registrato” le parole di un sindaco della zona, scandite a margine di una riunione della Consulta provinciale sull’immigrazione: “Era venuto a porre il problema dei flussi di stagionali. Gli chiesi ‘Perché non denunci?’. Mi rispose di essere un imprenditore agricolo, e di avere i propri mezzi agricoli sui campi”.
È l’incertezza a far sì che la questione non superi i confini di questo triangolo di pianura a 60 chilometri da Mantova. Per questo, Cgil e Cisl credono che si debba affrontare il problema cambiando “tavolo” da gioco: “Abbiamo proposto una certificazione di filiera, la sottoscrizione di un codice etico, che permettesse di segnalare che ‘Questo prodotto è fatto nel rispetto dei seguenti principi…’ -racconta Marinoni della Cisl-. Ne ho parlato con i direttori di Coldiretti e Confagricoltura, che non ne hanno voluto sapere”. “L’appoggio lo potremo trovare nei consumatori”, aggiunge Miloni della Cgil.
I consumatori, quelli che amano “la polpa succosa di color giallo-arancio fino al salmone, particolarmente spessa fibrosa e consistente” del melone mantovano e sono disposti a pagarlo fino a due euro al chilo al supermercato. Ma che probabilmente non ne hanno mai visto un campo né una serra. —