Altre Economie
La rete della biodiversità
In Ungheria, un forum per riconoscere il "diritto al seme" per i contadini
"Liberiamo la diversità!” è lo slogan scelto da contadini, organizzazioni sociali e non governative che, a fine febbraio 2011, si sono incontrate a Szeged, una cittadina Ungherese a Sud di Budapest. Un forum per discutere di biodiversità, semi e diritti degli agricoltori, contro la strapotere delle multinazionali sementieri e biotecnologiche e l’atteggiamento sordo di governi compiacenti.
Tra i promotori dell’evento, una due giorni ospiti dell’Università cittadina, anche la Rete italiana semi rurali, nata con l’obiettivo di promuovere scambio di buone pratiche e politiche alternative sui semi, e l’organizzazione non governativa Acra, che sostiene questo processo sia a livello italiano che europeo, in coordinamento con altre ong come Crocevia.
Obiettivo del forum, cui hanno partecipato diverse Ong europee e di reti sui semi di altri Paesi, come la spagnola Red de Semillas o la francese Réseau Semences Paysennes, era fare il punto sulla questione semi in Europa e scambiare buone pratiche di economia agricola locale. In agenda, anche una discussione in merito al prossimo incontro dell’organo direttivo sul Trattato internazionale sulle Risorse genetiche per l’alimentazione e l’agricoltura (Tirgaa, vedi l’approfondimento nella seconda apertura) che si svolgerà a Bali, in Indonesia, dal 14 al 18 marzo prossimi.
La cronaca dell’incontro di Szeged ci permette di fare il punto sulla “questione delle sementi”, a capire perché, per le reti contadine, come la Via Campesina, l’incontro di Bali tra i governi firmatari di un trattato semi-sconosciuto ai non addetti ai lavori è così importante, a comprendere -infine- l’importanza che i movimenti contadini danno alle politiche sui semi, il punto di partenza di ogni attività agricola.
È sulle sementi, non a caso, che storicamente ha fatto leva lo sforzo dell’agri-business per imporre un modello di produzione agricolo di tipo industriale: i semi ad alta resa hanno progressivamente sostituito le innumerevoli varietà locali che -dalla notte dei tempi- i contadini seminavano, miglioravano e scambiavano senza alcun vincolo o limitazione. Il modello industriale ha imposto poche varietà adatte a garantire un maggior rendimento per ettaro, che -a causa delle loro caratteristiche standardizzate che non si adattano alle specificità dei territori-, hanno costante bisogno di input chimici come diserbanti e fertilizzanti.
Il modello agricolo industriale ha determinato la perdita di biodiversità attraverso al scomparsa di numerose varietà di semi. Parallelamente, i governi hanno avviato una serie di riforme del sistema sementiero garantendo diritti di natura esclusiva ai possessori dei semi, l’industria sementiera e successivamente anche quella biotecnologica, e di fatto impedendo ai contadini di continuare nella loro pratica millenaria di conservazione, scambio e vendita di semi. Non solo, attraverso il sistema dei diritti esclusivi di commercializzazione prima e successivamente alla brevettazione sulla proprietà intellettuale, l’enorme patrimonio di biodiversità conservato e migliorato dai contadini è stato privatizzato finendo nelle mani delle grandi multinazionali del settore sementiero. Questo sistema di depredazione e conseguente perdita della biodiversità ha caratterizzato sia i Paesi sviluppati che quelli poveri o in via di sviluppo.
“Come recuperare questa biodiversità? Come garantire politiche sui semi eque che riconoscano i diritti dei piccoli contadini? Come riconoscere e sostenere il ruolo chiave svolto dai contadini nella conservazione e miglioramento della diversità varietale delle specie?”. Queste le domande condivise cui le oltre trenta organizzazioni di 17 Paesi, in maggioranza europei, e i 200 partecipanti al forum di Szeged hanno cercato di dare una risposta.
Da un lato, quindi, la messa in comune e lo scambio di buone pratiche che vanno dal recupero di specie antiche, alla loro riproduzione e distribuzione fino alle altre fasi della filiera come la trasformazione in prodotti alimentari e la loro commercializzazione. Dall’altro, un confronto politico sulla questione semi e agricoltura contadina, culminato in una dichiarazione finale per chiedere all’Unione Europea e agli altri Paesi membri del Trattato Fao sulle risorse genetiche per l’alimentazione e l’agricoltura in vista della conferenze di Bali, scelte chiare nella direzione di un sostengo ai piccoli contadini i principali custodi della biodiversità nel mondo.
A Szedge erano presenti tantissime esperienze di recupero e difesa della biodiversità agricola e alimentare. Contadini, fornai, agronomi, semplici appassionati hanno messo in comune lo sforzo di una vita per recuperare specie locali perdute, favorirne la riproduzione e la distribuzione ad altri contadini affinché li seminino facendo rifiorire la biodiversità nei loro territori. In tutti i Paesi il problema, pur con specificità determinate dai luoghi, è lo stesso: l’industria sementiera, con l’appoggio dei governi, ha di fatto imposto poche varietà, determinando la perdita di biodiversità. In tutti i Paesi lo scambio dei semi tra contadini è vietato o, al limite, tollerato pur se illegale.
Le storie dei “custodi della biodiversità” presenti in Ungheria hanno dello straordinario. Gli spagnoli hanno raccontato il progetto “Triticatum”, che ha l’obiettivo di promuovere la sensibilità pubblica sul rispetto del patrimonio fitogenetico delle varietà locali. Principalmente si tratta di frumento: solo il progetto in questione ha recuperato e conserva sul campo 400 varietà.
Poi c’è l’Italia, rappresentata da un agronomo siciliano, Giuseppe Li Rosi, commissario straordinario della stazione consorziale sperimentale di granicoltura per la Sicilia. Agricoltore da tre generazioni, da otto anni ha iniziato un lavoro di recupero di varietà granicole, seminando 200 ettari di grani locali, molti dei quali scomparsi dal territorio, riproducendoli e distribuendoli tra gli altri contadini.
Non solo, possiede un mulino per fare la farina con la quale produce pasta e pane (racconteremo questa storia in dettaglio sul numero di aprile di Altreconomia).
Altrove ci sono problemi: in Turchia, ad esempio, la biodiversità non è minacciata solamente dall’industria sementiera, ma dai grandi progetti infrastrutturali come nuove dighe o progetti nel settore estrattivo. In Romania, un Paese con 4 milioni di piccoli agricoltori, i semi arrivano dall’Olanda perché, ad esempio, fanno crescere pomodori più adatti agli scaffali dei supermercati.
Al forum ha partecipato anche un rappresentante tunisino. E ha raccontato che il lavoro d’indagine, necessario per avere chiara la dimensione del livello di biodiversità presente, era reso molto faticoso, a causa di un regime politico che non ti arrestava ma ti impediva di lavorare con la necessaria libertà. Una pressione costante e una libertà di espressione limitata impediva la possibilità di campagne nazionali contro, ad esempio, l’introduzione di sementi geneticamente modificati. Adesso al situazione è cambiata, ci ha spiegato, e anche per loro sarà possibile parlare alla radio o alla Tv ed esprimere la loro posizione.
Due giorni di incontri e dibattiti, caratterizzati da un momento di scambio dei semi, organizzato nel mercato ortofrutticolo della città, sono serviti ai protagonisti di questo forum a redarre una dichiarazione diretta ai governi in vista della prossima conferenza di Bali. Oltre a ribadire il ruolo centrale svolto dai contadini nella difesa della biodiversità, riconosciuto sulla carta nel Trattato internazionale sulle Risorse genetiche per l’alimentazione e l’agricoltura, ma non adeguatamente sostenuto con politiche conseguenti di implementazione dello stesso, la società civile chiede un maggiore spazio per il dialogo, rivendica il protagonismo dei movimenti di piccoli contadini, chiede che gli importanti principi contenuti all’interno del trattato, tra cui il diritto dei contadini, trovino adeguata applicazione all’interno delle legislazioni nazionali.
Un altro importante risultato del forum è stato quello di costituire formalmente una rete europea dei semi rurali, per dare maggiore efficacia e coordinamento politico alle azioni delle diverse reti nazionali che ormai da sei anni lavorano assieme.
Il prossimo appuntamento di “Liberiamo la Biodiversità!” è in Scozia nel 2012.
Semi e biodiversità tra privatizzazione e tutela
Vari strumenti legislativi si sono affermati per impedire la pratica informale di conservazione, scambio e vendita dei semi da parte dei contadini. In primo luogo, già a partire dagli anni Cinquanta fino alla sua ultima revisione del 1991, sempre più Paesi europei hanno aderito alla Convenzione UPOV –International union for the protection of new varieties of plant– la cui missione, possiamo leggere dal sito internet, è quella di “fornire e promuovere un sistema efficacie di protezione delle varietà di piante, con l’obiettivo di incoraggiare lo sviluppo di nuove varietà per il beneficio dell’intera società”. Si tratta di un sistema più “leggero” del brevetto, che garantisce al possessore della varietà un monopolio nella sua commercializzazione, ma un controllo limitato rispetto ad altri usi. Infatti i contadini sono stati lasciati liberi di moltiplicare i semi per il proprio uso e anche la ricerca era dotata di flessibilità.
Questo modello ha conosciuto una svolta restrittiva con la riforma del 1991, che limitava la libertà di conservazione e riutilizzo dei semi da parte dei contadini. In quegli stessi anni era in corso di negoziati il nuovo accordo multilaterale sulla protezione della proprietà intellettuale, il TRIPS -Trade-related aspects of intellectual property rights– dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc).
L’introduzione della proprietà intellettuale nel sistema dei semi è avvenuta grazie all’ingegneria genetica. Come conseguenza di ciò, l’Unione Europea ha adottato una direttiva (98/44/CE) che garantiva la protezione legale delle invenzioni biotecnologiche, attraverso l’istituzione di un brevetto sulle informazioni genetiche di un prodotto che arrivavano a comprendere anche le varietà biologiche derivanti dalla loro moltiplicazione e riproduzione.
Parallelamente a questa “guerra dei semi”, finalizzata ad ottenerne il controllo esclusivo delle risorse biologiche da parte delle imprese sementiere, una serie di iniziative sono state intraprese a livello multilaterale per arginare la perdita di biodiversità. Con la nascita delle moderne banche dei semi, ovvero istituti che conservano le varietà, si poneva la questione politica di a chi appartenessero questi semi e come si garantisse un loro libero scambio. Queste domande provenivano soprattutto dai Paesi del Sud che consideravano, a differenza dei Paesi del Nord, anche le sementi migliorate e protette come patrimonio dell’umanità. Come spiega la Rete semi rurali, “questa diatriba si è risolta nel corso degli anni Novanta. Da un lato, con la nascita della Convenzione della diversità biologica (CBD) del 1992, le risorse genetiche sono diventate proprietà dei singoli stati detentori, dall’altro sono stati creati i Diritti degli agricoltori (Farmers’ Rights) per controbilanciare i diritti dei costitutori (di nuove varietà, ndr) sanciti dall’accordo UPOV”.
Con la CBD, a diversità biologica da patrimonio dell’umanità diventava proprietà dei singoli Stati nazionali. Tale passaggio costringeva a realizzare accordi bilaterali per ogni scambio di materiale biologico con il rischio di bloccare il sistema eccessivamente burocratico e costoso. Per questo motivo fu deciso di creare una spazio ad hoc per le sementi gestito a livello multilaterale, con l’istituzione del Trattato internazionale sulle risorse genetiche per l’alimentazione e l’agricoltura (Tirgaa), firmato nel 2001 ed entrato in vigore nel 2004.
Il Trattato ha una natura vincolante per i firmatari e possiede due obbiettivi principali, ovvero la conservazione e l’uso sostenibile delle risorse genetiche e la giusta ed equa ripartizione dei benefici derivanti dal loro uso. Secondo la Rete semi rurali, questo Trattato partiva dal riconoscimento che l’innovazione varietale è stata e continua ad essere frutto di un lavoro collettivo e incrementale, in cui è difficile individuare un solo soggetto come responsabile. Per questo motivo, per la prima volta si riconosce in un Trattato internazionale in materia di tutela della biodiversità il ruolo degli agricoltori nella conservazione e miglioramento delle risorse genetiche. Inoltre, con l’articolo 9 vengono sanciti i diritti degli agricoltori, la cui applicazione viene però demandata e vincolata alle politiche nazionali.
Si tratta di un vizio di fondo del Trattato che, pur riconoscendo il ruolo e i diritti degli agricoltori, non li fissa in quadro normativo internazionale vincolante, ma li demanda a livello nazionale dove contestualmente vengono poste in essere legislazioni che vanno nella direzione contraria come quelle per la tutela dei diritti di proprietà intellettuale o del sistema di commercializzazione e scambio dei semi. Un altro elemento importante del Trattato è l’obbligo per gli Stati di adottare misure per l’uso sostenibile delle risorse genetiche per l’alimentazione e l’agricoltura (articolo 6).
A differenza della Convenzione sulla diversità biologica (CDB), il Tirgaa stabilisce un sistema di ripartizione dei benefici derivanti dall’uso delle risorse non su base privatistica e vincolata ad accordi bilaterali, bensì sulla base di sistema multilaterale e l’istituzione di un fondo gestito dal Trattato stesso.
Si tratta di quello che all’articolo 13 è definito come benefit-sharing (condivisione dei benefici), meccanismo che attraverso un sistema che faciliti la formazione, il trasferimento e l’accesso tecnologico e la ripartizione dei benefici monetari derivanti dalla commercializzazione dei semi, riconosce una sorta di diritto di compensazione per i contadini, custodi e della biodiversità, per i benefici che le industrie sementiere traggono dalla vendita di semi frutto di un’evoluzione alla quale gli stessi contadini hanno contribuito in modo attivo. Un ultimo aspetto chiave del Trattato è quello definito all’articolo 5 in materia di catalogazione e conservazione delle varietà ex-situ, ovvero non nei campi ma nelle banche del seme sparse per il mondo. Infine, dal punto di vista della governance, il Trattato possiede un organo direttivo composto dalle parti contraenti che si riunisce ogni due anni, mentre la continuità del lavoro è garantita da un segretariato, organo esclusivamente tecnico ospita presso la Fao a Roma.
Il prossimo incontro del Direttivo, il quarto dall’istituzione del Trattato, si svolgerà a Balì, in Indonesia, dal 14 al 18 Marzo prossimi. Si tratta di un momento importante in quanto il Trattato stabilisce -almeno sulla carta- diritti e doveri per gli Stati che però poi devono tradursi in scelte politiche coerenti. Ad esempio, come abbiamo detto, l’articolo 9 stabilisce i diritti dei contadini, ma questi vengono poi vincolati alle leggi in materia di sementi che vigono a livello nazionale.
Un tema che sarà fortemente dibattuto a Bali riguarda il meccanismo del benefit-sharing. Secondo Antonio Onorati, presidente del Centro Internazionale Crocevia, “su questo si gioca la partita chiave per i movimenti contadini, in quanto, poiché il Trattato riconosce che le risorse genetiche non appartengono solo alle imprese, qual è il sistema di compensazione per chi ha fornito e continua a fornire tale varietà? Per quanto ci riguarda -spiega Onorati- la compensazione deve avvenire attraverso una sorta di tassazione dei profitti che le industrie realizzano grazie ai brevetti”. Purtroppo i governi europei non considerano importante il ruolo svolto dai contadini nella conservazione della biodiversità, la modalità che tecnicamente viene definita “on-farm”, ovvero sul campo, ma privilegiano forme statiche come quelle rappresentate dalle banche del germoplasma, dove i semi vengono conservati in frigorifero.
Per riassumere, dal punto di vista della piccola agricoltura sono in particolare tre gli articoli del Trattato sui quali lavorare per tradurre in politiche efficaci i principi di tutela sanciti. Parliamo degli articoli 5, 6 e 9.
Il primo stabilisce la necessità di politiche di sostegno alla conservazione della biodiversità, che dovrebbero riconoscere e sostenere il ruolo della conservazione on-farm svolta dai contadini; l’articolo 6 chiede ai governi politiche di sostegno della biodiversità per garantire un uso sostenibile delle risorse genetiche, ad esempio attraverso una ricerca pubblica e partecipata e politiche pubbliche di sostegno all’agricoltura; l’articolo 9, infine, sancisce i diritti dei contadini configurandoli come diritti collettivi, ovvero detenuti da quel settore della popolazione rurale che conserva e seleziona la diversità agricola.
In realtà, come sottolineato anche dallo Special Rapporteur per il diritto al cibo delle Nazioni Unite, Oliver De Shutter, “i diritti stabiliti dall’articolo 9 rimangono senza strumenti di ricorso: sono solamente diritti sulla carta. Le misure -prosegue De Shutter- rimangono vaghe e la loro implementazione non è uniforme in tutti gli stati. Ciò risulta in forte contraddizione il livello di enforcement garantito ai diritti dei selezionatori di semi e ai brevetti dell’industria biotecnologica”. Infine -conclude De Shutter- non esiste nessun forum nel quale sia discussa l’implementazione dei diritti dei contadini, facilitando buone pratiche alle quali i governi potrebbe ispirarsi”.
Durante la terza sessione dell’organo direttivo del Trattato, svoltasi a Tunisi nel 2009, fu deciso di istituire una serie di incontri a livello regionale con l’obiettivo di avviare una consultazione ampia sull’implementazione dell’aricolo 9. Secondo Riccardo Bocci della Rete semi rurali, “anche l’istituzione di linee guida volontarie sarebbe un passo in avanti, ma l’Unione Europea si oppone in quanto vuole che l’articolo 9 rimanga vincolato alle legislazioni nazionali. Un elemento interessante e da valutare -conclude Bocci- è che nell’ultimo documento dell’Ue sulla conferenza di Balì siano rimaste menzionate”.