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Ambiente / Opinioni

La proprietà privata sulle sementi frena l’innovazione, sempre

© Photo by IISD/ENB | Mike Muzurakis

La sessione dell’organo di governo del Trattato Fao sulle risorse fitogenetiche è un’occasione da non perdere per dare riconoscimento e dignità di esistenza alle comunità che producono e detengono la biodiversità

Tratto da Altreconomia 264 — Novembre 2023

Dal 20 al 24 novembre 2023 Roma ospita la decima sessione dell’organo di governo del Trattato Fao sulle risorse genetiche vegetali per l’agricoltura e l’alimentazione. Si tratta della riunione di tutti i 150 Paesi aderenti che ogni due anni negoziano e definiscono attività e politiche, monitorando lo stato di avanzamento dell’implementazione nei singoli Stati membri. È importante ricordarsi che siamo all’interno del mondo delle Nazioni unite: un sistema di negoziato multilaterale dove le decisioni sono prese per consenso, con il principio “un Paese un voto”. Un esercizio di democrazia non irrilevante in un mondo sempre più dominato da gruppi di influenza come il G7, il G20 o da contesti dove a contare è soprattutto il peso economico dei membri, come il Brics formato per il momento da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.

Ma di che cosa si occupa il Trattato Fao? Per capirlo dobbiamo tornare al 1983 quando durante la Conferenza della Fao, alcuni Stati del Sud del mondo chiesero un accordo internazionale sulle sementi. La domanda non era peregrina: com’era possibile che l’agrobiodiversità presente nei campi e sviluppata dagli agricoltori fosse considerata patrimonio comune dell’umanità a libero accesso e, invece, le varietà migliorate dalla ricerca erano protette da proprietà intellettuale? Da allora è passata tanta acqua sotto i ponti.

La Convenzione sulla diversità biologica (Cbd), approvata nel 1992 a Rio de Janeiro ed entrata in vigore nel 1994, si è illusa di trovare una soluzione a questa domanda, ancora più rilevante per il settore della biodiversità naturale: le risorse diventano di proprietà degli Stati e l’accesso viene negoziato con loro bilateralmente.

Facciamo un esempio: prima del 1994 una multinazionale poteva andare in Amazzonia, prelevare campioni o dati liberamente, tornare a “casa”, sviluppare un prodotto nuovo, brevettarlo e metterlo sul mercato. Il tutto senza nessun riconoscimento al Paese o alla comunità di origine della risorsa. Che invece, dal 1994, hanno un ruolo decisivo: la multinazionale, infatti, prima di andare a fare bioprospezione deve negoziare un accordo che stabilirà i benefici economici riconosciuti ai “proprietari” di quel bene. Questo modello si definisce Abs (acronimo di Access and benefit sharing) ed è stato formalizzato dal Protocollo di Nagoya entrato in vigore nel 2014, accordo interno alla Convenzione sulla diversità biologica frutto di ben vent’anni di discussioni.

Un simile sistema, basato su negoziati bilaterali tra “proprietari” della risorsa e utilizzatori, è una follia per l’innovazione varietale in agricoltura, frutto dello scambio continuo di varietà e del lavoro incrementale tra generazioni e attori. Far fronte a questa specificità è uno degli obiettivi del Trattato, che ha creato una specie di bene comune globale in cui i singoli Stati, abdicando alla loro sovranità, hanno deciso di mettere un set di colture in quello che si chiama Sistema multilaterale. Insomma, non più il libero accesso di quando erano patrimonio comune dell’umanità, ma un sistema facilitato, multilaterale, dove le risorse circolano sulla base di un accordo uguale per tutti e che non prevede scambi in denaro.

In un momento storico in cui abbiamo maggiore bisogno di biodiversità, questa è sempre più chiusa da recinti che ne rendono difficile, se non impossibile, l’uso

Nel frattempo la proprietà intellettuale ha esteso il suo dominio sulla ricerca agricola, con strumenti sempre più stringenti come il brevetto industriale che, grazie a pratiche scorrette dell’Ufficio brevetti europeo (Epo), finisce per andare a proteggere anche le varietà vegetali e i geni in esse contenute, disattendendo le indicazioni del Parlamento europeo. “Il sospetto è che la forzatura delle metafore meccanicistiche, inadeguate a descrivere la biologia di oggi, sia un alibi per giustificare la privatizzazione del vivente. I brevetti -scriveva nel 2003 la giurista Maria Chiara Tallacchini- sono strumenti che nascono in un altro ambito e con altri scopi: forse è ora di inventarci strumenti giuridici nuovi”. Purtroppo, invece di cercare vie innovative, siamo finiti a mettere bandierine, dare patenti di proprietà a una pletora di soggetti, con il risultato di rendere ancora più difficile lo scambio delle risorse, tanto che alcuni autori descrivono questa epoca come quella della tragedia degli anticommons. La tesi è semplice: quando troppe persone possiedono pezzi di una cosa, nessuno può usarla.

Un’eccessiva proprietà privata riduce l’innovazione e porta al sottoutilizzo della risorsa, in un meccanismo per cui si riduce la cooperazione e tutti perdono. Risolvere la tragedia degli anticommons sarà la sfida fondamentale per continuare a promuovere l’innovazione nelle nostre società. Dovendo fare un bilancio emerge un vincitore: gli avvocati esperti di negoziati Access and benefit sharing. Al contrario sono molto pochi gli esempi che dimostrano che il modello della Convenzione sulla diversità biologica -accesso in cambio di soldi- abbia davvero funzionato.

Nel settore agricolo le multinazionali sementiere si sono sviluppate le loro collezioni private di sementi, riducendo la necessità di accedere a quelle in pubblico dominio conservate dalle banche pubbliche del germoplasma e, di conseguenza, anche la disponibilità delle varietà. E, ovviamente, l’idea di avere un ritorno economico verso quelle comunità, rurali o indigene, che avevano sviluppato o conservato le risorse è rimasto solo un miraggio. In un momento storico in cui per rispondere alle sfide dei cambiamenti climatici avremmo maggiore bisogno di biodiversità, questa è sempre più chiusa da recinti e steccati che ne rendono difficile se non impossibile l’uso. Un controsenso legato alla polarizzazione tra Nord e Sud del mondo, di cui non si vede all’orizzonte una facile soluzione.

Ecco perché il Trattato è importante. È l’unico luogo multilaterale in cui trovare un compromesso tra mondi distanti e discutere non solo di accesso alle sementi, ma anche di quelle politiche che dovrebbero rendere pienamente operativo questo strumento di diritto internazionale. Politiche legate ai diritti degli agricoltori e all’uso sostenibile dell’agrobiodiversità, con l’obiettivo di dare riconoscimento e dignità di esistenza alle comunità che hanno prodotto, producono e detengono la diversità. Non soldi in cambio di risorse, ma costruzione di un ambiente scientifico, giuridico, sociale ed economico pluralistico: humus fondamentale dove far crescere nuovi sistemi agroalimentari diversificati e agroecologici.

Riccardo Bocci è agronomo, specializzato nella gestione dinamica dell’agrobiodiversità. Segue come esperto le politiche internazionali sulle sementi, in particolare presso la Fao. Ha lavorato con l’Associazione italiana agricoltura biologica (Aiab) occupandosi di sementi biologiche e popolazioni evolutive. Ha fatto parte del gruppo di lavoro del ministero dell’Agricoltura che ha redatto le Linee guida sull’agrobiodiversità. Tra i fondatori di Rete Semi Rurali nel 2007, dal 2014 ne è direttore tecnico

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