Diritti / Attualità
La pandemia ha colpito i diritti dei lavoratori nella filiera tessile
Nell’emergenza alcuni grandi marchi della moda hanno annullato gli ordini nei confronti dei loro fornitori, situati nei Paesi a basso reddito dove la produzione è stata delocalizzata come Bangladesh e Sri Lanka. A subirne gli effetti è stata la classe lavoratrice, rimasta senza stipendio in contesti che non sempre garantiscono protezione sociale. La denuncia di “Abiti Puliti”
In Bangladesh è stata licenziata quasi la metà dei 4,1 milioni di lavoratori del settore tessile, da quando è scoppiata la pandemia. La denuncia è della Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (BGMEA), che riporta una cancellazione di ordini per oltre tre miliardi di dollari da parte delle imprese di abbigliamento occidentali. L’impatto del Covid-19 sui lavoratori dello Sri Lanka “è stato immenso”, secondo l’organizzazione non-profit Free Trade Zones & General Services Employees Union, e gli impiegati del settore tessile non hanno percepito il salario di marzo. “I datori di lavoro danno la responsabilità al ritiro o alla riduzione delle commesse dei loro clienti. In questa situazione, i lavoratori a contratto sono i più colpiti”, ha spiegato il Sottosegretario dell’organizzazione Anton Marcus. Di fronte al calo della domanda, le grandi industrie di abbigliamento in Europa e Nord America hanno cancellato gli ordini, bloccato o negoziato i pagamenti con i loro fornitori nei Paesi dove hanno delocalizzato la produzione, sfruttando la posizione di potere di cui godono nella filiera globale. Gli effetti immediati sono stati sulla classe lavoratrice, che ha subito una riduzione dei compensi fino alla perdita del posto di lavoro senza ricevere il trattamento di fine rapporto.
Secondo l’analisi “Who will bail out the workers that make our clothes?”, elaborata dal Worker Rights Consortium a marzo, i lavoratori del settore tessile sono stati tra i più colpiti dalla crisi economica determinata dalla pandemia. E continueranno a esserlo anche nella “Fase 2”. Sono almeno 50 milioni nei Paesi a basso reddito su un totale di più di 150 milioni che producono beni destinati all’esportazione in Occidente e in Giappone. Sono principalmente donne, percepiscono un salario basso che è spesso la sola entrata economica del nucleo familiare. Secondo il rapporto, a non garantire i diritti dei lavoratori è il funzionamento stesso delle filiere globali di fornitura, concepite per limitare gli obblighi del marchio nei confronti del produttore locale. Sono i fornitori che devono anticipare i costi di produzione, compreso l’acquisto delle materie prime e i salari, e ricevono un pagamento solo 60-90 giorni dopo la consegna. “Quando intervengono fattori esterni che aumentano i costi di produzione, come sta avvenendo adesso, i grandi marchi agiscono per limitare i loro costi. Ora stanno cancellando gli ordini previsti e lo fanno anche retroattivamente: non rimborsano il fornitore che aveva già comprato il materiale o pagato la manodopera. Una spesa che non si potrà recuperare”, si legge nel rapporto.
Nella fase dell’emergenza sanitaria in Bangladesh, per esempio, secondo l’indagine “Abandoned? The Impact of Covid-19 on Workers and Businesses at the Bottom of Global Supply Chains” in oltre il 70% dei casi i fornitori non hanno ripagato il materiale già acquistato e nel 90% non hanno retribuito i costi di produzione già sostenuti. Anche se non pagare implica una violazione contrattuale, dal momento che i rapporti di lavoro non prevedono la possibilità di sciogliere il contratto a causa di una crisi globale sanitaria, sono pochi i casi in cui il fornitore chiede un risarcimento perché spera nella ripresa del rapporto di lavoro. Inoltre nei Paesi a basso reddito in cui è dislocata la produzione, sono assenti o insufficienti meccanismi di protezione sociale come l’assicurazione sanitaria, l’indennità di disoccupazione o i fondi di garanzia in caso di insolvenza, anche a causa di decenni di pressione al ribasso sui prezzi pagati dalle imprese committenti.
Il rapporto del Worker Rights Consortium ha chiesto ai grandi marchi di rispettare gli obblighi contrattuali verso i fornitori. Si è unita all’appello anche la campagna Abiti Puliti, una delle 14 coalizioni nazionali della Clean Clothes Campaign in Europa che si occupa di assicurare il rispetto dei diritti dei lavoratori nel mondo della moda. La campagna ha chiesto di rendere conto sulla pratiche in corso ai marchi italiani Miroglio, Moncler, OVS, Versace, Zegna, Prada, Salewa ma al momento solo le ultime due hanno fornito rassicurazioni sul fatto che rispetteranno gli impegni assunti con i fornitori al sorgere della pandemia. Secondo Abiti Puliti, è possibile ripercorrere tre fasi della crisi che ha colpito le filiere globali: la prima si è verificata quando la Cina ha smesso di esportare le materie prime necessarie alla produzione di abbigliamento; la seconda è avvenuta in Europa e negli Stati Uniti, quando le aziende della moda hanno annullato gli ordini in corso senza retribuirli o hanno smesso di effettuarne di nuovi; l’ultima quando il Coronavirus ha colpito anche i Paesi produttori, dove alcuni fornitori hanno chiuso le fabbriche senza retribuire i lavoratori.
“La crisi è arrivata come un pugno in faccia per farci rendere conto, speriamo definitivamente, che un modello economico basato sulla compressione massima dei costi, sullo sfruttamento illimitato delle risorse e sulla assenza di reti di protezione sociale solide per chi lavora è semplicemente insostenibile”, ha dichiarato la coordinatrice di Abiti Puliti Deborah Lucchetti. Abiti Puliti ha inviato una lettera al Presidente del Consiglio Conte, e ai ministri Gualtieri, Di Maio e Catalfo dove ha sottolineato che “solo le aziende che dimostrino di saper proteggere i lavoratori propri e appartenenti all’intera catena di fornitura devono poter contare su misure di sostegno”. In particolare, la campagna ha evidenziato la necessità che le società beneficiare delle misure previste dal Decreto Liquidità garantiscano in modo trasparente il rispetto dei diritti umani lungo la loro catena di fornitura anche internazionale. “Le catene di fornitura globali, se torneranno ad operare, dovranno essere radicalmente riformate -ha dichiarato Lucchetti- mettendo al centro il tema della redistribuzione del valore e l’istituzione di sistemi di assistenza e previdenza sociale per tutti i lavoratori della filiera”.
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