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La nuova mobilità che ci aspetta dopo la pandemia. E le strategie migliori per costruirla

Il settore dei trasporti rappresenta circa un quarto delle emissioni di gas climalteranti dell’Unione europea. I programmi nazionali di investimenti finanziati dal Next Generation Fund dovranno contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici. L’Italia, dove il principale mezzo di trasporto è l’automobile, non può sbagliare

© Andreeew Hoang - Unsplash

La pandemia sta cambiando i nostri stili di vita. Non solo perché molte attività che prima richiedevano spostamenti quotidiani oggi si svolgono da remoto, ma anche perché le reti e i mezzi attraverso cui si muovono merci e persone devono adeguarsi a condizioni sanitarie straordinarie. Le conseguenze dell’emergenza Covid-19 sono state evidenti fin dall’inizio per il settore dei trasporti. Da una parte la difficoltà di garantire sicurezza ai passeggeri su mezzi come metro, bus e treni; dall’altra gli effetti positivi sull’ambiente con la riduzione del traffico, dei gas inquinanti e del rumore. A più di un anno dallo scoppio della pandemia alla politica è chiesto di trasformare questa sventura in una opportunità.

Nel dicembre 2020 la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato l’approvazione dell’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030. Lo ha fatto proprio nel giorno del primo anniversario dell’European Green Deal, il piano europeo per un’economia ecologicamente sostenibile che delinea gli investimenti necessari e gli strumenti di finanziamento disponibili. Il Green Deal europeo è la cornice politica che determinerà i prossimi investimenti, inclusi quelli finanziati dal Next Generation Fund (NGEU).
Il settore dei trasporti è uno dei principali su cui intervenire. Rappresenta circa un quarto delle emissioni di gas climalteranti della zona Ue e, secondo il piano, dovrà ridurle del 90% entro il 2050. Parte dei miliardi che gli Stati membri dell’Unione devono prevedere nei Piani nazionali di ripresa e resilienza (PNRR) -i programmi nazionali di investimenti finanziati dal NGEU- dovranno essere utilizzati per misure sui trasporti capaci di contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici. E dovranno inoltre essere in linea con le indicazioni della
Strategia per una mobilità sostenibile e intelligente presentata dalla Commissione europea lo scorso dicembre.

In Italia il principale mezzo di trasporto è l’automobile. Dal database dell’Istat risulta che nel 2019 il parco veicoli comprendeva quasi 52,4 milioni di mezzi. Di questi, circa il 75% (39,5 milioni) sono automobili. “In 70 anni, il numero di automobili in Italia si è moltiplicato di più di 115 volte -spiega Stefano Maggi, professore di Storia contemporanea all’Università di Siena. Nel periodo subito dopo la Seconda guerra mondiale era la bicicletta il mezzo più diffuso. Le famiglie ne avevano più di una e c’era anche la possibilità di applicare alle bici il motore. La prima fase di sviluppo dei trasporti fu molto favorevole per il trasporto pubblico, anche su rotaia, ma già alla fine degli anni 50 la politica virò verso la mobilità privata”.

Secondo i dati dell’ultima indagine condotta dall’Istituto superiore di formazione e ricerca per i trasporti (ISFORT) gli italiani ancora oggi preferiscono l’auto per gli spostamenti. Nel 2019 il 62,5% degli intervistati l’ha scelta come mezzo di trasporto (più 3,5% rispetto al 2018), contro il 10,8% dei trasporti pubblici, il 3,3% delle bici e il 20,8% degli spostamenti a piedi. Il tasso di mobilità sostenibile -la percentuale di spostamenti a piedi, in bici, con mezzi pubblici sul totale- è sceso nel 2019 al 35% (era 37,2% nel 2002 e 37,9% nel 2017). Nonostante l’ISFORT preveda per il 2020 una crescita del tasso, dovuto all’aumento delle soluzioni di trasporto senza motore, non rappresenta un progresso significativo per il trasporto ecologico nel nostro Paese (che rimarrà sotto il 40%).

“L’invasione degli autoveicoli e i problemi connessi sono stati causati da errori nelle politiche dei trasporti poco incisive -continua Maggi-. Il mercato ha fatto da padrone. Oggi la diffusione della mobilità sostenibile deve passare necessariamente dal concetto di demotorizzazione, che non vuol dire abbandonare del tutto l’auto ma semplicemente ridurne l’uso allo stretto necessario. Bisogna diffondere la cultura del ‘muoversi bene’, far comprendere ai cittadini come muoversi meglio e realizzare interventi di mobilità coordinati, che si rafforzano a vicenda: incrementare e migliorare il trasporto pubblico, realizzare le piste ciclabili, incentivare la pedonalità, restringere le possibilità di circolazione e sosta di autoveicoli e moto”.

Attualmente in Italia ci sono 2.341 chilometri di piste ciclabili in 22 città italiane. Secondo il rapporto “Covid Lanes” pubblicato a dicembre 2020 da Legambiente, nei prossimi cinque anni bisognerebbe raddoppiare i chilometri di piste ciclabili nelle città italiane, con un finanziamento di un miliardo di euro. Un dato che l’associazione ambientalista ricava dai piani urbani di mobilità sostenibile (PUMS) che prevedono progetti per altri 2.626 chilometri di piste ciclabili. Ma per Paolo Pileri, docente di Pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, l’ipotesi di una nuova mobilità sostenibile non può stare all’interno di piani comunali: “Il rischio è che si creino pezzi sconnessi di infrastrutture ciclabili in giro per l’Italia e che ogni Regione progetti in modo diverso. Invece è necessario un meccanismo decisionale centrale, un ufficio all’interno del ministero che si occupi solo di mobilità sostenibile, con la competenza tecnica specifica per questo settore. Questa unità deve essere in grado di coordinare le regioni e le autorità locali nella realizzazione dei progetti”. 

Puntare sulla mobilità lenta -le piste ciclabili e le zone pedonali- richiede lo studio di tutta la filiera dello spostamento e, secondo Pileri, una visione chiara del cambio di paradigma: “Se consideriamo la ciclabilità di tipo turistico, non può essere pensata come stimolo al turismo di massa. Bisogna mantenere alta l’attenzione sulla delicatezza dei territori e sulle loro fragilità. E nessuna deroga alle garanzie ambientali ed ecologiche deve essere accettata, anche quando legittimamente si vuole snellire le procedure burocratiche da ciò che rallenta la realizzazione dei progetti”. 

Per spostare un numero consistente di persone verso forme alternative di mobilità saranno necessari forti investimenti anche nel trasporto pubblico urbano. Secondo l’analisi dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASVIS) il PNRR del governo Conte II programmava per la mobilità urbana sostenibile 760 milioni all’anno per misure che comprendevano le piste ciclabili, la filiera dei veicoli elettrici e ibridi, il rinnovo della flotta a basse e a zero emissioni di autobus, dei treni regionali, dei trasporti navali regionali e del trasporto rapido di massa. Una cifra considerata insufficiente dal Centro nazionale di studi per le politiche urbane (Urban@it), associazione a cui aderiscono numerose università italiane e la Società italiana degli urbanisti (SIU). Tenendo conto dei vincoli del PNRR -la cantierabilità dei progetti entro il 2023 e il completamento entro il 2026- l’Urban@it ha calcolato il fabbisogno finanziario per la mobilità urbana in 31,2 miliardi di euro: 20 miliardi sono già finanziati dalle previsioni di bilancio 2021-2023, mentre sono 11,2 quelli da aggiungere. Le stime prendono in considerazione solo gli investimenti per il trasporto rapido di massa (TRM) -servizi ferroviari metropolitani, metropolitane e tramvie- e per il rinnovo della flotta di bus, treni, tram/metro. Una cifra che si allontana molto da quella prevista dalla bozza del PNRR di gennaio e che non tiene neanche conto degli investimenti per la mobilità lenta e per i veicoli elettrici e ibridi, stimati dal centro in altri 4,1 miliardi e 9,2 miliardi. Tutte misure, specificano gli esperti, che non possono essere finanziate solo dal Next Generation Eu, ma che devono fare affidamento anche ad altri strumenti finanziari come i fondi strutturali europei e i fondi per la coesione territoriale. 

Secondo Legambiente l’occasione offerta dal piano di investimenti post pandemia potrebbe rafforzare il trasporto su binari in Italia. I dati del rapporto “Pendolaria 2021” raccontano che sono tante le aree urbane dove è cresciuto il numero di persone su treni, metro e tram. I passeggeri sui treni regionali e metropolitani, che superano i 6 milioni ogni giorno, sono aumentati del 7,4% tra 2018 e 2019. Ma mancano da realizzare su tutto il territorio nazionale progetti che riguardano 146 chilometri di linee metropolitane, 367 chilometri di percorsi per i tram e 70 chilometri di linee ferroviarie suburbane. Per togliere passeggeri alle auto, gli investimenti devono puntare anche ad aumentare le corse giornaliere nelle linee ferroviarie nazionali secondarie e regionali, fuori dalle linee dell’alta velocità: “Dal punto di vista ambientale investire in alta velocità potrebbe avere un impatto negativo -spiega Paolo Beria, professore di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano. Realizzare le infrastrutture necessarie su tutto il territorio nazionale significa nuovo consumo di suolo e cementificazione”.

Nonostante questo l’alta velocità è presente nella strategia europea sulla mobilità sostenibile. “Le misure sui trasporti del PNRR dovrebbero essere programmate in base a studi di impatto ambientale, che quantifichino la riduzione di emissioni attesa dalla realizzazione dei progetti -continua Beria. In questo modo si potrebbe scoprire che avrebbe più senso per l’Italia investire nelle tecnologie per la sicurezza e il controllo dei treni oppure nei nodi ferroviari più saturi, in modo da preparare le infrastrutture che già esistenti a gestire più corse di treni. Molti benefici inoltre si avrebbero da investimenti in manutenzione”. Nel suo scenario al 2030 Legambiente ha calcolato che per il potenziamento delle linee ferroviarie in Italia serviranno circa 18,5 miliardi di euro. Una buona parte di questi dovrebbe essere destinato al Sud dove circolano meno treni, più vecchi e su linee in larga parte a binario unico e non elettrificate. 

La strategia europea per la mobilità si pone anche l’obiettivo di rendere i trasporti “equi e giusti per tutti”. Evitare che i mezzi per spostarsi siano costosi per le persone a basso reddito, accessibili per le persone con disabilità o a ridotta mobilità e per le persone con scarse conoscenze informatiche. “Non è sufficiente dotare il centro della città e le sue immediate vicinanze di soluzioni per la mobilità sostenibile”, spiega ad Altreconomia Isabelle Anguelovski, direttrice del Barcelona Lab for Urban Environmental Justice and Sustainability, un centro di ricerca che studia i fattori strutturali e sistemici delle disuguaglianze sociali nelle città. “Per essere inclusive le soluzioni ecologiche devono essere guidate dalle esigenze di pendolarismo dei residenti che vivono in periferia. Questi residenti fanno spesso tragitti più lunghi e potrebbero vivere in aree più collinari, per questo potrebbe essere utile per loro usare biciclette elettriche a prezzi accessibili. L’accesso a qualsiasi mezzo di trasporto dovrebbe prevedere prezzi sulla base del reddito”. Un piano di piste ciclabili dovrebbe quindi progettare tragitti sicuri, ben separati dalla strada (con bassi limiti di velocità) e soprattutto collegati, cioè facilmente raggiungibili dalle aree più remote delle città dove i gruppi storicamente emarginati tendono a vivere. Dove le piste ciclabili non possono arrivare dovrebbero arrivare i mezzi pubblici, tram, metropolitane e autobus pensati per accogliere a bordo le biciclette.

Le misure prese porterebbero alla riqualificazione di interi quartieri, anche periferici, che potrebbero però andare incontro a processi di gentrificazione, all’aumento del valore degli immobili e del costo della vita, portando i residenti ad allontanarsi dalle zone dove hanno abitato per anni. I piani per la mobilità dovrebbero essere integrati da altre misure, come quelle per garantire il diritto alla casa, spiega Anguelovski: “Le amministrazioni locali possono intervenire attraverso coraggiosi piani per i diritti degli alloggi, il controllo del prezzo degli affitti, l’aumento delle unità abitative accessibili e pubbliche, le agevolazioni fiscali e il sostegno per l’acquisto della prima casa”. Con le entrate delle tasse sul turismo, secondo la ricercatrice di Barcellona, potrebbero per esempio essere finanziati i sussidi agli affitti e le unità abitative pubbliche: “Storicamente le città sono state pianificate da e per gli uomini, per necessità e pratiche urbane produttive e consumistiche. Oggi è necessario applicare un approccio ‘intersezionale’, che si concentri sui bisogni delle diverse e molteplici identità e sulle necessità di gruppi invisibili e svantaggiati: le minoranze etniche, gli anziani e i bambini, le donne. Costruire città che si muovano verso il benessere e la salute dei residenti”.

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