Crisi climatica / Intervista
La nuova guerra del clima si combatte contro gli “inattivisti”
Intervista al climatologo statunitense Michael Mann che nel suo nuovo saggio illustra le strategie con cui aziende inquinanti e istituzioni cercano di ostacolare la transizione ecologica proponendo false soluzioni
Nel saggio “La nuova guerra del clima” (Edizioni Ambiente, 2021), il climatologo statunitense Michael Mann affronta le insidiose tattiche messe in campo dalle aziende del fossile per ritardare la transizione ecologica. La nuova guerra del clima non è più contro chi nega la realtà dei cambiamenti climatici, ma contro quelli che chiama gli “inattivisti”, coloro che mirano a deviare l’attenzione dalle misure necessarie e a focalizzarsi su false soluzioni.
Il nuovo libro di Mann è una vera e propria guida che insegna a districarsi tra le trappole di chi si proclama “ecomodernista” e propone la geoingegneria come soluzione, di chi fomenta sfide di “purezza” tra chi adotta lo stile di vita più ecologico o ancora di chi si dispera perché “ormai non c’è più tempo”. Sono queste, secondo lo scienziato, le strategie degli “inattivisti”, che hanno un solo obiettivo: distogliere l’attenzione dal cambiamento sistemico e fare in modo che si possa continuare a bruciare combustibili fossili.
Celebre in tutto il mondo per aver elaborato il grafico della “Mazza da hockey” -che ha mostrato per la prima volta con l’efficacia visiva l’inequivocabilità del riscaldamento globale ed è diventato un’icona nel dibattito sui cambiamenti climatici-, Mann si difende dagli attacchi dei negazionisti del clima da trent’anni. Ne “La nuova guerra del clima”, mette in campo non solo il rigore scientifico che ha fatto di lui uno degli scienziati contemporanei più influenti al mondo, ma anche l’esperienza che deriva da anni di battaglie in prima linea, che lo hanno obbligato a sapersi destreggiare abilmente nell’arena mediatica, dove gli stessi ambientalisti spesso diventano prede facili delle nuove strategie degli “inattivisti”.
Nel saggio spiega che nel corso della sua carriera di scienziato è diventato suo malgrado anche un “combattente nelle guerre climatiche”. Quando è successo?
MM Credo sia successo intorno al 2001, quando il grafico della “Mazza da hockey” è stato incluso nella sintesi per i decisori politici del Terzo rapporto di valutazione del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). Ben presto sono stato attaccato da politici conservatori, lobby dei combustibili fossili e media di destra che cercavano di screditare me e il grafico in modo tale da minare la fiducia dei cittadini nella scienza climatica. Tutto ciò ha avuto profonde implicazioni sulla mia carriera, ma la “Mazza da hockey” ha resistito a questa e altre sfide.
Se prima le industrie fossili negavano il problema, sono passate poi a una strategia di diffusione del dubbio fino ad arrivare a ciò che lei ha chiamato “inattivismo”. Che cos’è successo negli ultimi 30 anni?
MM È successo che gli impatti dei cambiamenti climatici sono diventati troppo evidenti, tanto da non rendere più credibile un negazionismo esplicito. Ma le aziende inquinanti, e gli individui e le istituzioni che le supportano e le legittimano (quelli che io chiamo gli “inattivisti”), non hanno adottato azioni per il clima. Hanno semplicemente iniziato a usare nuove tattiche, come cercare di ritardare le politiche, creare delle divisioni interne tra ambientalisti, far credere che sia troppo tardi per agire o spostare l’attenzione verso soluzioni illusorie. Lo sforzo è diretto a mantenere la nostra dipendenza dai combustibili fossili ed evitare la necessaria transizione verso le energie pulite.
“Non possiamo permettere alle aziende fossili di strumentalizzare la responsabilità individuale per fare in modo che non vengano intraprese le misure necessarie”
Una delle strategie degli “inattivisti” è creare delle divisioni tra gli ambientalisti, usando quella che lei chiama la “strategia a cuneo”. Di che cosa si tratta?
MM Seguendo la logica del “divide et impera”, la strategia a cuneo consiste nel separare gli attivisti per il clima facendoli litigare tra loro, alimentando la stigmatizzazione dei comportamenti poco ecologici (come prendere aerei o mangiare carne). In questo modo gli inattivisti spostano l’attenzione dai cambiamenti sistemici e dalle politiche di cui abbiamo bisogno (dalla tassazione della CO2 ai sussidi alle rinnovabili, al blocco dello sviluppo di nuove infrastrutture per i combustibili fossili), focalizzandola invece sulla responsabilità dei singoli.
Se coloro che si impegnano per l’azione climatica si mettono a discutere sul grado di “purezza” ecologica dei loro comportamenti o sulle questioni che vengono spesso usate per cercare di dividerci -classe, etnia, genere- allora non sono più in grado di parlare con una voce sola e unita.
Certamente dovremmo tutti fare quel che possiamo per minimizzare il nostro impatto ambientale. Molti di questi sforzi hanno solo effetti positivi sulle nostre vite: ci fanno risparmiare soldi, migliorano la nostra salute, ci fanno stare bene con noi stessi e danno un buon esempio agli altri. Ma non possiamo permettere alle aziende fossili di strumentalizzare la responsabilità individuale per fare in modo che non vengano intraprese le misure necessarie e il cambiamento sistemico che dobbiamo attuare con la transizione.
“Tutti quei libri, articoli o testi che nutrono il catastrofismo li definisco ‘pornografia climatica’. È uno stile che può scatenare l’adrenalina della paura, ma in realtà inibisce l’impulso ad agire”
Lei scrive che attualmente “il catastrofismo rappresenta una minaccia più grande per l’azione climatica rispetto alla negazione totale”. Perché?
MM Il catastrofismo e la perdita di speranza possono spingere le persone sulla stessa strada dell’inazione a cui vuole portare il negazionismo. Se crediamo che sia troppo tardi per fare qualcosa per combattere i cambiamenti climatici (il che è falso), perché dovremmo agire? Gli inattivisti alimentano la fiamma del catastrofismo nella speranza che releghi la gente nelle retrovie quando invece dovrebbe stare in prima linea a pretendere azioni sul clima. Tutti quei libri, articoli o testi che nutrono il catastrofismo e il senso di inevitabilità io li definisco “pornografia climatica” e usano -consapevolmente o meno- questa tattica. È uno stile che può scatenare l’adrenalina della paura ma che, in realtà, inibisce l’impulso ad agire.
Un’altra strategia degli inattivisti è concentrarsi sulle “soluzioni non soluzioni”. Ci può fare un esempio?
MM Uno dei migliori esempi è la geoingegneria, che consiste nell’iniezione di particelle di zolfo nella stratosfera per far riflettere la luce del sole indietro nello spazio, oppure nella cattura e sequestro di CO2. Si tratta della promessa di una soluzione tecnologica risolutiva per il futuro, di fatto un espediente che permetterebbe alle aziende fossili e ai politici di lavarsene le mani e continuare con il business as usual.
Che cosa la rende ottimista?
MM I giovani. Il movimento giovanile per il clima ha cambiato radicalmente la situazione, facendo pressione sulle aziende inquinanti ed evidenziando la dimensione etica della crisi climatica. Disastri ambientali senza precedenti hanno sottolineato l’urgenza dell’azione. Abbiamo visto ripristinarsi la leadership degli Stati Uniti. L’Europa sta alzando l’asticella dei suoi impegni per il clima e la Cina è di nuovo al tavolo dei negoziati. C’è motivo di essere cautamente ottimisti riguardo alla prossima Conferenza delle parti (la Cop26 di Glasgow) a novembre, sperando in una spinta al rialzo degli impegni per la riduzione delle emissioni. Siamo in un momento critico della battaglia contro i cambiamenti climatici e l’unico ostacolo all’azione è la volontà politica: dobbiamo ritenere i nostri politici responsabili e domandare ai nostri governi di impegnarsi in azioni significative da adesso.
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