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Crisi climatica / Approfondimento

La pubblicità delle aziende fossili fa male al Pianeta. È ora di vietarla

Le multinazionali di petrolio, gas e carbone aggravano la crisi climatica e minacciano la salute. Eppure spot e sponsorizzazioni non hanno limiti. Una campagna europea ne propone il bando, come già fatto con il tabacco

Tratto da Altreconomia 241 — Ottobre 2021
Una protesta organizzata dagli attivisti inglesi di Extinction Rebellion al Museo della scienza di Londra © Crispin Hughes - Extinction Rebellion

I combustibili fossili contribuiscono in maniera determinante alla crisi climatica che è ormai “diffusa, rapida e che si sta intensificando”, come ha ricordato ad agosto il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) nel primo volume del Sesto rapporto di valutazione (“Climate change 2021. Le basi fisico-scientifiche”). Non solo, gli inquinanti atmosferici prodotti dalla loro combustione -oltre alle emissioni già citate- minacciano gli ecosistemi e la salute umana: ogni anno sono sette milioni le morti premature per “polluted air”, cui si aggiungono i 130mila decessi annui correlati alle ondate di calore solo in Europa.

Non è un caso che ai primi di settembre del 2021 più di 200 riviste scientifiche del campo sanitario (dal British medical journal a Lancet, dal New england journal of medicine al Chinese science bulletin) abbiano pubblicato un editoriale congiunto indirizzato ai decisori politici: richiamano l’urgenza di agire contro i cambiamenti climatici e di proteggere la salute globale da conseguenze “catastrofiche”. Se vogliamo avere una qualche probabilità di raggiungere gli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi che puntano a contenere entro 1,5°C l’aumento della temperatura media globale, inoltre, non dovremmo nemmeno sfiorare le risorse già disponibili in giacimenti noti. Lo ha evidenziato da ultimo uno studio pubblicato sulla rivista Nature a settembre 2021 (a cura di Dan Welsby, James Price, Steve Pye e Paul Ekins) che ha dato conto delle riserve note “non estraibili”: il 58% del petrolio, il 59% del gas, l’89% del carbone.

Come è possibile dunque che le multinazionali che si occupano di estrazione, raffinazione, fornitura, distribuzione o vendita di combustibili fossili -così come le imprese che promuovono il trasporto aereo, stradale o marittimo alimentato a combustibili fossili (da Ryanair ad Audi)- possano ancora farsi pubblicità o sponsorizzare eventi, istituzioni, musei, giornali, teatri, festival? 

Silvia Pastorelli –climate&energy campaigner di Greenpeace a Bruxelles– va dritta al punto: “Da tempo sappiamo che il tabacco nuoce alla salute e per questo è stato necessario impedire che venisse pubblicizzato. Di mese in mese cresce l’evidenza scientifica degli impatti dei combustibili fossili. La pubblicità e la sponsorizzazione del tabacco sono vietate allo scopo di tutelare la salute pubblica: perché non puntiamo a fare lo stesso con i combustibili fossili? Sarebbe un cambiamento sistemico”.

Quella di Pastorelli non è un’iperbole: il dibattito internazionale sul boicottaggio e sulla messa all’angolo del modello fossile, e quindi sul contrasto a pubblicità o sponsorizzazioni, sta crescendo. È un movimento che coinvolge realtà tra le più diverse: da Ong a partiti politici, da gruppi informali a collettivi studenteschi, da amministrazioni locali a organi di informazione. 

È così forte che dal 4 ottobre 2021 Greenpeace, in collaborazione con decine di realtà associative in tutta Europa, lancia una raccolta di firme a sostegno di una “Iniziativa dei cittadini europei” (Ice) intitolata proprio “Vietare la pubblicità e la sponsorizzazione dei combustibili fossili. L’Ice è uno strumento formale previsto dall’ordinamento dell’Unione europea volto a innescare un procedimento legislativo e a costringere la Commissione a pronunciarsi, proponendo in questo caso agli Stati membri il “divieto di qualsiasi promozione o pubblicità, diretta o indiretta, nonché di qualsiasi distribuzione gratuita o promozionale o di qualsiasi relazione di sponsorizzazione” dei combustibili fossili.

Greenpeace -che ha presentato il testo dell’Ice e l’annessa proposta di direttiva alla Commissione il 22 aprile di quest’anno, ottenendone la registrazione a metà giugno- è impegnata da tempo contro quello che Federico Spadini, coordinatore della campagna per l’Italia, chiama “lo strapotere dell’industria fossile”. “Vogliamo smascherare i colossi europei come Total, British Petroleum, Shell, Eni, e metterne in discussione la social license, ovvero il grado di accettazione del loro modo di fare affari -dice Spadini-. Queste aziende utilizzano i canali pubblicitari e gli strumenti delle sponsorizzazioni per raccontare una storia ‘green’ e sostenibile che non è vera”. Per attivare l’Ice occorre raccogliere almeno un milione di firme autenticate entro un anno, centrando una soglia minima in sette Paesi dell’Ue. “Il momento è arrivato -riprende Pastorelli-, sappiamo che non sarà una battaglia comunicativa facile ma da un punto di vista pratico il precedente del tabacco è per noi di grandissimo aiuto. Sappiamo che è possibile”.

Una protesta organizzata dagli attivisti inglesi di Extinction Rebellion davanti al Museo della scienza di Londra. Qui Shell ha finanziato la mostra “Our Future Planet” dedicata a imprecisate “soluzioni” per fare fronte all’emergenza climatica © Gareth Morris – Extinction Rebellion

Il precedente in questione è rappresentato dalla Convenzione quadro dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per la lotta al tabagismo (Who framework convention on tobacco control, acronimo Fctc), adottata all’unanimità nel maggio del 2003 ed entrata in vigore nel febbraio 2005. Come ricorda il ministero della Salute italiano, la Fctc “stabilisce obiettivi e principi che hanno lo scopo di proteggere le generazioni presenti e future dalle devastanti conseguenze sanitarie, sociali, ambientali ed economiche causate dal consumo di tabacco e dall’esposizione al fumo di tabacco”. È anche da questo primo trattato internazionale per la tutela della salute pubblica giuridicamente vincolante che discende il divieto imposto tra 2003 e 2004 a livello europeo sui messaggi pubblicitari delle aziende attive nel settore del tabacco. Proprio il divieto cui guarda Greenpeace.

Sul primo numero di quest’anno del Journal of european consumer and market law, Clemens Kaupa -ricercatore presso la Vrije Universiteit di Amsterdam- ha tracciato un illuminante “bilancio” della Convenzione Onu sul tabacco, descrivendone scopi e approcci. Uno su tutti: l’obiettivo di “denormalizzare” il fumo, strapparlo all’immaginario quotidiano di accettabilità costruito dalle aziende che ci lucrano, renderlo qualcosa di cui vergognarsi. “Le forme di ‘denormalizzazione’ sono due -spiega Kaupa-: la prima è di natura sociale, finalizzata a espellere il tabacco dalla nostra normalità. Si ottiene attraverso un divieto esteso a tutte le forme di pubblicità, promozione e sponsorizzazione delle aziende”.

Il sito di Eni racconta un’azienda sostenibile, verde, amica della transizione e in movimento per l’economia circolare. Il bilancio dice altro

La seconda forma tocca direttamente le multinazionali, allo scopo di “sensibilizzare le persone rispetto alle loro responsabilità in tema di danni alla salute pubblica e di smascherarne le tattiche manipolatorie”. La Convenzione mette in guardia con lucidità dagli sforzi dei colossi nel tentare di “sovvertire” qualsiasi tentativo di controllare il tabacco, vietando così anche i messaggi sui finti benefici delle “sigarette light” (pensiamo ai carburanti “green”) e applicando sui pacchetti espliciti messaggi di carattere sanitario. “Tabacco e combustibili fossili sono comparabili sotto molteplici aspetti -aggiunge Kaupa, che demolisce nel suo paper le pratiche di presunta autoregolamentazione-. Per questo l’esperienza maturata con la Fctc può essere da guida”. 

Le strategie delle aziende fossili sono note: dall’inflazionato greenwashing -per presentarsi “verdi”, sostenibili, società benefit alleate della transizione-, al più sottile e recente wokewashing, che si sviluppa attraverso messaggi, campagne (in particolare sui social network) o sponsorizzazioni apparentemente sensibili alle ingiustizie sociali, alle condizioni delle minoranze o delle comunità in condizioni svantaggiate. Poco importa che al 2018, come segnala il centro di ricerca CDP, appena l’1% del budget delle principali aziende dell’oil&gas fosse destinato effettivamente a forme di energia rinnovabile. Queste tecniche fanno parte di quello che un gruppo di ricercatori coordinati dall’economista William Lamb ha definito a metà 2020 come il “discorso del ritardo” (“Discourses of climate delay” pubblicato sulla rivista Global sustainability), che si accompagna a quelli del “raggiro” e del “diniego” dell’emergenza climatica e della stretta correlazione con i combustibili fossili. Il traguardo del 2050 che tanto è sulla bocca (e sui banner) dei giganti -come è dimostrato nel report “The big con” (Il grande imbroglio, luglio 2021) a cura di Corporate accountability international, Global Forest Coalition e Friends of the Earth International- non è che un modo per buttare la palla in tribuna.

La britannica BP è tra gli sponsor del Comitato paralimpico internazionale e del British museum. Mentre la Royal Shakespeare Company ha interrotto la sua collaborazione con la multinazionale fossile a seguito dell’iniziativa del gruppo “BP or not BP?”

Se fosse in vigore il divieto proposto da Greenpeace -o dall’alleanza Ban Fossil Advertising, da Culture Unstained, dal “marchio” Oil sponsorship free, dai creativi senza committenti fossili di cleancreatives.org, solo per citare alcuni soggetti in movimento- le aziende si ritroverebbero senza vetrina. Volkswagen e Gazprom, ad esempio, non potrebbero più sponsorizzare i campionati europei di calcio disputati nel 2021. British Petroleum non accompagnerebbe il Comitato internazionale paralimpico. Gli oltre 250 accordi tra aziende fossili e team sportivi -messi in fila nel recente reportSweat no oil” a cura di New weather institute, Possible e Rapid transition alliance- verrebbero meno. Eni non starebbe con la Federazione italiana giuoco calcio, con il Comitato paralimpico italiano, o con il Piccolo Teatro di Milano, il Festival della letteratura di Mantova, con Maker Faire o la Triennale, con il Meeting di Rimini o l’evento internazionale “Economy of Francesco”, al Fuorisalone di Milano (insieme ad Audi), e tanti altri. Shell –già molto influente con Exxon sui musei olandesi– non potrebbe sponsorizzare la mostra “Our Future Planet” del Museo della Scienza di Londra dedicata a imprecisate “soluzioni” per far fronte all’emergenza climatica. Inaugurata in primavera, è stata travolta dalle polemiche anche per aver avuto il fegato di esporre tre cartelli realizzati da giovani studenti scesi in piazza per gli scioperi del clima, all’insaputa degli autori che ne hanno infatti chiesto la rimozione per cederli al Climate museum Uk. Total -che ha cambiato nome in TotalEnergies- saluterebbe il Louvre (e non solo). BP, di nuovo, sarebbe fuori dal British Museum, come già avvenuto con la Royal Shakespeare company dopo l’eroica iniziativa del gruppo “BP or not BP?. L’elenco è lungo.

In Europa l’onda s’ingrossa sempre di più. Il Comune di Amsterdam ha bandito in primavera le pubblicità fossili dalla metropolitana. In Francia il Parlamento ha discusso dal febbraio scorso una legge a proposito. Il quotidiano britannico Guardian, non da oggi, ha rifiutato inserzioni di questo tipo (Altreconomia lo fa da quando è nata, 22 anni fa), così come il British medical journal, il francese Context, lo svedese Dagens Nyheter. Nel Regno Unito si discute addirittura della possibilità di escludere aziende “nemiche della transizione” dai listini di Borsa. Il sito verbiedfossielereclame.nl raccoglie queste e tante altre iniziative su scala globale.

Manca l’Italia, dove il dibattito è molto più freddo anche per l’ingombrante presenza di Eni, il cui azionista di maggioranza è lo Stato (ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti). Quello della pubblicità ai giornali è un tasto dolente: nel 2019 l’azienda avrebbe investito 51 milioni di euro a riguardo, il 57% dei quali a beneficio delle principali concessionarie (Manzoni, Publitalia, Rai, Rcs etc.). Pubblicamente annuncia lo sviluppo di comunità energetiche nel Sud-Est milanese o trasforma lo statuto di Eni gas e luce in società benefit. Conti alla mano, però, resta ancora la “vecchia” società fossile: nei primi sei mesi del 2021, infatti, su 31,4 miliardi di euro di ricavi, 24,6 arrivavano dall’esplorazione-produzione di idrocarburi e dalla loro raffinazione. Il settore delle rinnovabili -ubiquo negli spot- vale 11 milioni di euro: lo 0,03%. Fumo negli occhi. 

A questo link è possibile leggere e firmare la Ice promossa da Greenpeace e altre Ong.

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