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Diritti / Reportage

La lotta delle radio indigene del Guatemala per dar voce ai diritti e alle culture dei popoli

Radio Ixchel è un'emittente gestita e autofinanziata dalla comunità maya kaqchikel in Guatemala © Ylenia Sina

Le emittenti indigene sono state escluse per oltre vent’anni dall’assegnazione legale delle frequenze radio subendo processi e sequestri delle attrezzature. Ma una sentenza della Corte interamericana dei diritti umani gli ha dato ragione e ha portato all’apertura di un dialogo con il Governo. Il nostro reportage

“Se mi aveste incontrato tre anni fa non avrei saputo che cosa dirvi”. Angela De Mérici Tejaxun Cajbon, 17 anni, ricorda ancora quando ha chiesto a sua madre se potesse partecipare al corso per comunicatrici organizzato da Radio Ixchel, emittente gestita e autofinanziata dalla comunità maya kaqchikel di Sumpango, il Comune dove è nata, a una quarantina di chilometri a Ovest di Città del Guatemala, lungo la Panamericana. “Da allora ho imparato a esprimermi e ho aperto la mia mente su molti temi”, aggiunge, mentre dalla porta dello studio di registrazione si sentono una voce maschile e una femminile alternarsi in un dialogo. “È un romanzo radiofonico sul tema della salute sessuale e della pianificazione familiare”, spiega Lesly Chiquito, parte del consiglio direttivo della radio, che ha lavorato alla sua realizzazione. “Qualcuno in paese ci ha detto che non dovremmo affrontare questi temi pubblicamente, ma per noi sono importanti perché altrimenti ai giovani non ne parla nessuno, né a casa né a scuola”.

De Mérici e Chiquito siedono nel cortile condiviso da più abitazioni e sul quale si affaccia lo studio di registrazione di Radio Ixchel. Al loro fianco, a formare un semicerchio, ci sono altri due adolescenti che partecipano al progetto e due comunicatori “più anziani” della radio. “Questo è uno spazio aperto a tutta la popolazione”, dice Anselmo Xunic Cabrera, fondatore dell’emittente nel 2003 e parte del movimento delle radio comunitarie del Guatemala. “Grazie alla radio manteniamo in vita la nostra identità, trasmettiamo ogni giorno la musica tradizionale delle feste e utilizziamo la madrelingua: così anche i giovani sono tornati a voler suonare la marimba e a parlare la lingua dei nostri antenati. La radio, inoltre, promuove il pensiero libero e fa discutere dei problemi e dei diritti della comunità: un lavoro che risveglia la coscienza della popolazione e arriva a mettere in discussione le decisioni delle autorità nei nostri territori. È per questo che siamo perseguiti e criminalizzati”.

Sequestri della strumentazione e sospensione delle trasmissioni, processi e arresti a carico dei comunicatori. Le circa sessanta radio indigene del Guatemala, molte delle quali sono nate all’inizio degli anni Duemila per dare voce ai diritti e alla cultura tradizionale dei popoli maya, garífuna e xinca, non hanno mai avuto vita facile e la loro situazione è in bilico ancora oggi. La legge in materia di radiocomunicazioni assegna le licenze con aste pubbliche al miglior offerente e in un Paese dove la ricchezza, così come radio e televisioni, è concentrata nelle mani di una ristretta élite economica questo modo di procedere equivale a escludere nei fatti la possibilità che la popolazione indigena, che vive all’80 per cento in povertà, possa competere con le emittenti commerciali. È così da oltre vent’anni. E ancora oggi, a fronte del fatto che il 43,6 per cento della popolazione guatemalteca sia censita come indigena, con stime indipendenti che alzano questa cifra al 65 per cento, solo una frequenza sulle oltre cinquecento assegnate è nelle mani di un’emittente comunitaria. “In sintesi ci costringono a una situazione di illegalità”, commenta Cesar Gomez, comunicatore maya pocomam e membro di Cultural Survival, un’organizzazione non governativa impegnata nella difesa dei diritti delle popolazioni indigene nel mondo.
Lo ha messo nero su bianco anche la Corte interamericana dei diritti umani (Cidh) che il 17 dicembre 2021 ha pubblicato una sentenza con la quale ha riconosciuto che lo Stato del Guatemala “ha violato il diritto alla libertà di espressione, all’uguaglianza davanti alla legge e alla partecipazione alla vita culturale dei popoli indigeni”. La Cidh ha ricordato che libertà di espressione e pluralismo sono le basi di una società democratica e ha chiesto allo Stato guatemalteco di adeguare la normativa, interrompere le persecuzioni penali dei gestori delle radio e di pubblicare entro sei mesi i contenuti della sentenza sulla Gazzetta ufficiale.
“È uno strumento giuridico in più per far valere i diritti dei popoli indigeni del Guatemala e potenzialmente, dicono gli esperti, di tutto il Sudamerica”, osserva Xunic. La petizione all’organo internazionale, scattata per denunciare la violazione degli articoli della Convenzione americana sui diritti umani relativi alla libertà di espressione e all’uguaglianza davanti alla legge, è partita proprio da Radio Ixchel che l’ha avanzata nel 2012 insieme ad altre tre emittenti comunitarie.

I giovani comunicatori di Radio Ixchel per le strade di Sumpango © Ylenia Sina

Anche Radio Ixchel è stata oggetto di criminalizzazione. Accadde nel 2006, tre anni dopo la sua fondazione: Xunic finì a processo con l’accusa di furto di frequenza, “un reato che non poteva essere applicabile alle bande radio”. Il giudice dispose anche la perquisizione della sede e la confisca degli strumenti. Le trasmissioni furono interrotte per sei mesi. “Alla fine il giudice decise che non c’erano abbastanza prove per incolparmi e ricomprammo gli strumenti grazie a una colletta della comunità”, ricorda ancora Xunic. A un’altra delle radio che ha avanzato ricorso, la Uqul Tinamit (Voce del popolo), gestita dai maya achí in una zona rurale del centro del Guatemala, è andata peggio: il responsabile è stato arrestato e condannato per furto e l’emittente, dopo due sequestri alle attrezzature, nel 2012 e nel 2016, ha chiuso per sei anni. Il 4 agosto di quest’anno è tornata in onda, ma con strumentazione presa in prestito perché non ha più trovato i fondi per ricomprarla. Per la Cidh, il governo dovrebbe risarcire i danni e sospendere subito ogni forma di criminalizzazione fino a quando verrà assicurato un accesso legale alle frequenze.

A distanza di nove mesi dalla pubblicazione della sentenza, le realtà che hanno portato avanti il ricorso denunciano che quanto richiesto dalla Cidh non è ancora stato rispettato. Tra agosto e settembre 2022 si sono tenute due riunioni tra una delegazione delle radio comunitarie e delle associazioni che le sostengono, i rappresentanti della Commissione presidenziale per la pace e i diritti umani (Copadeh), alle dirette dipendenze dell’esecutivo guidato da Alejandro Giammattei, e quelli degli organismi giudiziari coinvolti con “l’obiettivo di dare compimento alla sentenza nell’ambito delle competenze di ciascuna istituzione”, scrive la Copadeh. “Vogliamo essere coinvolti nelle decisioni”, spiega Gomez. “Nel corso delle riunioni abbiamo chiesto la presenza di funzionari che hanno il potere di prendere decisioni in merito, così da poter affrontare tutti i nodi. Inoltre ci è stato riferito che la Soprintendenza delle telecomunicazioni ha già pubblicato la sentenza, ma su una parte del sito non molto visibile. Questo per noi non assolve le richieste della Cidh”, conclude Gomez aggiungendo che la traduzione del riassunto della sentenza nelle lingue maya delle comunità coinvolte è invece in corso.

Intanto, la sentenza è già stata definita “storica” dai promotori. “Questa vittoria arriva a oltre 25 anni dalla firma degli accordi di pace con cui il governo si era impegnato a cedere frequenze ai popoli indigeni. Un impegno non mantenuto che ci ha spinto ad avanzare il ricorso alla Cidh”, spiega Xunic. Era il 29 dicembre 1996 quando il governo del Guatemala e l’Unità rivoluzionaria nazionale guatemalteca, che coordinava i movimenti guerriglieri di sinistra, firmarono l’accordo che pose fine a 36 anni di guerra civile che aveva provocato oltre 200mila morti e circa 40mila desaparecidos, tra i quali 340 reporter assassinati e 126 scomparsi. Una delle tappe di questo percorso è rappresentato dall’Accordo sull’identità e i diritti dei popoli indigeni che, tra i vari punti, riconosce la necessità di favorire l’accesso ai mezzi di comunicazione realizzati da e per le comunità maya, garífuna e xinca, storicamente discriminate. In quel contesto, lo Stato si era impegnato a promuovere riforme per facilitare l’accesso dei popoli indigeni alle frequenze. “Da quel momento nelle nostre comunità iniziarono a proliferare le radio che però restarono illegali perché la legge, nei fatti, si prendeva gioco dell’accordo”, commenta Gomez. Nel 2012, sollecitata da un ricorso, la Corte costituzionale ha stabilito che la legge rispetta la costituzione ma ha invitato il Congresso della repubblica a metterci mano. A partire dal 2002 sono stati presentati tre progetti di legge, ma nessuno è stato approvato.

Se la repressione verso le radio indigene è una costante nella storia del Paese, oggi va inserita all’interno del quadro più generale dello stato di salute di cui gode l’informazione in Guatemala. Dopo la fase di rafforzamento dei processi democratici seguita alla fine della guerra civile e alle dittature degli anni Ottanta, “proprio come in altri Paesi del Centroamerica, stiamo assistendo a un ritorno dell’autoritarismo nell’ambito delle politiche pubbliche ma anche degli spazi per la libertà di espressione”, spiega Claudia Ordoñez Viquez dell’Ong Artículo 19. “Negli ultimi mesi una serie di giudici e magistrati, ma anche diversi giornalisti, che avevano denunciato la corruzione sono stati sottoposti a procedimenti giudiziari e alcuni di loro, per paura, sono stati costretti a lasciare il Paese (25 operatori di giustizia e 6 giornalisti, ndr)”. Nel 2020 Artículo 19, insieme ad altre organizzazioni locali attive sul tema della libertà di espressione, tra le quali Centro Civitas e Artículo 35, ha dato vita alla Red rompe el miedo, che tradotto significa “Rete rompi la paura”, con l’obiettivo di aprire un osservatorio sulla libertà di espressione e di creare protocolli per la protezione dei giornalisti sotto minaccia. Ne fanno parte anche l’associazione Sobrevivencia Cultural e la Federazione guatemalteca delle scuole radiofoniche, nata nel 1965 per alfabetizzare la popolazione campesina senza accesso all’educazione e ai mezzi di comunicazione, oggi gestita in gran parte da comunità indigene. Del resto sono proprio i giornalisti sul campo, quelli che lavorano nelle “province”, i più vulnerabili “perché devono affrontare il fuoco incrociato delle autorità locali, delle imprese che investono sui loro territori e del crimine organizzato e spesso sono chiamati a raccontare le vertenze delle popolazione che reclama i propri diritti contro di essi”, aggiunge Ordoñez. In questi territori, in prima linea, ci sono i giornalisti locali. E i comunicatori delle radio indigene.

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