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Diritti / Attualità

Le pessime condizioni di vita dei richiedenti asilo al confine meridionale del Messico

Un gruppo di migranti davanti a un centro di accoglienza a Tapachula, lungo la frontiera meridionale del Messico © European Union, C.Palma

I migranti e i richiedenti asilo che entrano nel Paese attraverso la frontiera a Sud continuano a subire abusi e faticano a ottenere protezione a causa delle politiche volte a impedirgli di raggiungere gli Stati Uniti. La denuncia di Human Rights Watch

Non si arresta l’emergenza umanitaria in Messico. Tra gennaio e maggio 2022 sono giunte quasi 49mila persone provenienti da oltre cento Paesi, oltre 8mila in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Uomini, donne e bambini in fuga da guerra, povertà e dalle violenze di gruppi criminali che controllano Paesi come El Salvador e Haiti e che -nella maggior parte dei casi- hanno come meta finale gli Stati Uniti. Ma che invece si trovano bloccati in condizioni di vita precarie e con scarsa tutela dei propri diritti fondamentali. Per loro, infatti, lasciare il Messico è diventato quasi impossibile: nonostante le promesse del presidente americano Joe Biden durante la campagna elettorale, il decreto “Remain in Mexico” voluto dal suo predecessore, Donald Trump, è ancora in vigore. L’accordo, siglato nel gennaio 2019 tra Washington e Città del Messico, obbliga migranti e richiedenti asilo ad aspettare in territorio messicano che le loro domande di visto per gli Stati Uniti siano valutate. Nell’ambito di questo accordo, tra il gennaio 2019 e il gennaio 2021, l’amministrazione Usa ha rimandato in Messico più di 71mila persone, comprese decine di migliaia di bambini, persone con disabilità e malati cronici.

“L’esternalizzazione dell’applicazione delle norme sull’immigrazione ha portato a gravi abusi e ha costretto centinaia di migliaia di persone ad aspettare in condizioni spaventose per cercare protezione”, denuncia Tyler Mattiace, ricercatore per le Americhe di Human Rights Watch, organizzazione impegnata nella difesa dei diritti umani che lo scorso 8 giugno ha pubblicato un report in cui evidenzia le drammatiche condizioni in cui si ritrovano a vivere decine di migliaia di persone. Il documento punta il dito anche contro le decisioni adottate dal governo messicano di Andrés Manuel López Obrador che ha imposto una serie di restrizioni (tra cui il divieto di visto ai cittadini brasiliani, haitiani ed ecuadoriani, incrementato i controlli su voli e trasporti interni per limitare la mobilità interna) nel tentativo di scoraggiare le partenze verso la frontiera settentrionale del Paese.

“Coloro che attraversano il confine meridionale del Messico in fuga da violenze e persecuzioni faticano a ottenere protezione, subiscono gravi abusi e ritardi e spesso sono costretti ad aspettare per mesi in condizioni disumane vicino al confine meridionale del Messico, mentre lottano per trovare lavoro o un alloggio”, è la denuncia di Hrw. Dal 2017 il numero di richieste di asilo ricevute dalla Commissione messicana per l’aiuto ai rifugiati (Comisión mexicana de ayuda a refugiados, Comar) sono aumentate drasticamente passando dalle 20mila del 2017 alle oltre 130mila del 2021. Nel frattempo però il budget della Commissione è rimasto invariato e di conseguenza le domande esaminate sono state meno di 40mila. La legge messicana riconosce come rifugiato chiunque fugga da violenze generalizzate, conflitti interni o da sistematiche violazioni dei diritti umani. Il Comar ha stabilito che Honduras, El Salvador e Venezuela sono Paesi in cui queste condizioni sono presenti e prende in carico l’esame delle domande; mentre le persone provenienti da Cuba o Haiti hanno molte meno possibilità di ricevere protezione.

In attesa del permesso, decine di migliaia di persone si sono trovate bloccate nelle città al confine meridionale del Messico o in centri di detenzione gestiti dall’Istituto nazionale della migrazione (Instituto nacional de migracion, Inm). Human Rights Watch ha intervistato 19 persone detenute nei centri gestiti dall’Inm che hanno raccontato di aver subito pressioni e di essere state minacciati da agenti e funzionari perché rinunciassero a chiedere protezione internazionale nel Paese e accettassero di essere riportate nel loro Paese d’origine. “Il funzionario ci ha messo davanti a una scelta: accettare la deportazione o fare richiesta di asilo al Comar. Ma ha aggiunto che facendo domanda saremmo stati costretti ad aspettare nel centro anche per tre anni, invitandoci quindi a tornare a casa”, ha raccontato un uomo. La strategia sembra funzionare: sulle oltre 130mila domande d’asilo ricevute dal Comar nel 2021, solo 4.177 (il 3% del totale) sono state presentate da migranti che si trovavano nei centri di detenzione lungo il confine.

Epicentro di questa emergenza è la città di Tapachula, nello Stato del Chiapas, e punto d’ingresso dei migranti nel Paese. Qui nel 2021 circa 90mila persone hanno presentato domanda d’asilo: “Molti hanno atteso per mesi che le proprie istanze fossero esaminate e di ricevere i documenti che attestano il loro status legale, in modo tale da poter lasciare la città -osserva Human Rights Watch-. Spesso subiscono discriminazioni e faticano a trovare casa e lavoro. Gli interventi messi in campo dall’Unhcr e dal governo messicano non sono sufficienti. Alcune delle persone intervistate hanno dichiarato di non sentirsi sicure a Tapachula perché la città è molto vicina al confine con il Guatemala, dove sono presenti i gruppi criminali da cui loro sono scappati”. Mentre attendono che l’analisi delle domande venga completata (iter che può durare anche più di un anno) i migranti privi di visto non possono lasciare lo Stato e l’agenzia per l’immigrazione gestisce posti di blocco in tutto il Chiapas, sulle strade che portano fuori città e in tutto lo Stato, nonché presso le stazioni degli autobus e gli aeroporti.

“Non posso lasciare Tapachula. Devo rimanere qui -ha raccontato Israel, 24anni, originario del Nicaragua-. Per quanto riguarda il lavoro, è difficile. Le persone non si sentono a proprio agio ad assumere uno straniero, ed è stato davvero difficile trovarsi in un Paese che non è il tuo. Ho affrontato molte situazioni che non avevo mai dovuto affrontare prima. Come trovarmi per strada senza nemmeno un centesimo. Non avere nulla da mangiare. Non avere nulla da bere. È davvero difficile”. Joel, 20 anni, lavorava come tassista in Honduras è dovuto fuggire quando gli uomini della MS-13 (uno dei gruppi criminali più spietati del Centro America, ndr) sono andati a chiedere il pagamento di una “tassa”. “Li ho ignorati, poi sono venuti a casa mia. Hanno detto che se non avessi pagato ci avrebbero ucciso. Ma volevano più soldi di quelli che guadagnavo: non avevo modo di pagare -racconta-. Ho degli amici a Monterrey (nel Nord del Messico, ndr), quindi volevamo andare lì. Ma ora non possiamo lasciare Tapachula. Quando siamo arrivati qui, non sapevamo cosa fare. All’inizio abbiamo dormito nel parco, io, mia moglie e i miei due figli. Poi abbiamo trovato un rifugio. Dicono che dobbiamo aspettare qui per mesi. Ma io non riesco a trovare lavoro qui. Non so cosa faremo”.

La situazione è confermata dalle testimonianze raccolte dal Danish refugee council, che ha intervistato 438 famiglie di rifugiati: il 75% ha affermato di non aver trovato lavoro nei tre mesi precedenti, l’80% dei bambini non ha frequentato la scuola né ha avuto accesso all’istruzione. Il 70% ha dichiarato di non avere accesso ai servizi sanitari di base mentre circa la metà non ha la possibilità di acquistare farmaci. Per affrontare questa situazione Hrw ha fatto appello al governo messicano per un incremento dei fondi per la Comar e un rafforzamento della presenza dell’ente presso il confine e i centri di detenzione. “Il presidente López Obrador ha spesso dipinto il Messico come un esempio per i diritti dei migranti e dei richiedenti asilo -ha concluso Mattiace-. Se questo è vero, dovrebbe dimostrarlo assicurando ora a chi cerca rifugio nella parte meridionale del Paese un’accoglienza dignitosa”.

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