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Diritti / Intervista

La letteratura working class, da misterioso ircocervo ad anima di un festival da tutto esaurito

La partecipazione all'incontro con D. Hunter e Anthony Cartwright al Festival di letteratura working class © Edizioni Alegre

Lavoro, oppressione, subalternità, esclusione. E la riscossa delle lavoratrici e dei lavoratori. Dal 31 marzo al 2 aprile si è tenuta la prima edizione in Italia del Festival di letteratura working class, organizzato dalle Edizioni Alegre al presidio (ex) Gkn di Campi Bisenzio. Un successo di cui abbiamo parlato con l’autrice Simona Baldanzi

Scrivere del lavoro, dell’oppressione, della subalternità, dell’esclusione e farlo da persone lavoratrici, oppresse, subalterne, escluse. È la letteratura working class, un tempo misterioso ircocervo, oggi capace di animare un festival da tutto esaurito. Un “Festival di letteratura working class” -il primo in Italia, il secondo in Europa dopo quello di Bristol del 2021- durato tre giorni, da venerdì 31 marzo a domenica 2 aprile, in un luogo speciale, un luogo di lotta che sta facendo emergere un nuovo immaginario sul lavoro e la condizione operaia, insomma il presidio (ex) Gkn di Campi Bisenzio (Firenze).

Un festival concepito dal Collettivo di fabbrica Gkn insieme con il “suo” editore, cioè le Edizioni Alegre, che hanno pubblicato l’anno scorso il libro scritto dal Collettivo sulla sua esperienza e il suo “Insorgiamo Tour”. Alegre è anche il primo editore ad avere avviato una collana di letteratura working class, affidata alla direzione di Alberto Prunetti, a sua volta autore working class e traduttore, oltre che direttore artistico del festival. È stato un successo: per certi versi annunciato, vista la capacità di aggregazione mostrata dal Collettivo di fabbrica metalmeccanico, per altri versi sorprendente, vista l’inattesa dimensione e l’intensità della partecipazione ai dibattiti, agli spettacoli, alle letture pubbliche.

Ne abbiamo parlato, durante una pausa tra una sessione e l’altra, con Simona Baldanzi, autrice nel 2006 di uno dei primi romanzi working class di nuova generazione, “Figlia di una vestaglia blu”, uscito in prima battuta per Fazi e ripubblicato, appunto, da Alegre.

Simona, che impatto può avere il successo di un Festival di letteratura working class sul mondo della cultura “ufficiale”?
SB Io ci trovo dentro grandi emozioni, grande rispetto. Come ha detto Alberto Prunetti citando David Graeber ci trovo anche un’attitudine alla cura: prendersi cura di alcune parole, di alcune espressioni, di alcune storie che in altri posti non hanno trovato altrettanto rispetto, cura e spazio. E tutto questo avviene in una fabbrica produttivamente abbandonata, che si vuole far morire, con i lavoratori lasciati in sospeso, senza stipendio, messi a bollire in pentola come la rana che alla fine non riesce più a uscire, secondo la metafora utilizzata dagli stessi lavoratori. A me sembra che questo festival sia uno scatto, un’apertura ad altre storie utile non solo a raffreddare l’acqua, ma anche a far capire che tutti noi possiamo trovarci, nei nostri ambienti di lavoro, nella condizione delle rane messe a bollire. Una ragazza, durante un dibattito, ha chiesto: io lavoro in ospedale, non in fabbrica, quindi non potrei raccontare storie working class? In realtà stiamo diventando tutti working class oppressa: ci sono gli operai infermieri, gli operai giornalisti, gli operai impiegati, gli operai camerieri, gli operai insegnanti. Il sistema di fabbrica ha ormai rimodellato tutto il mondo del lavoro. Tutti siamo diventati un anello della catena di montaggio. Anche nel rapporto con le istituzioni: seguire una pratica, segnare un bambino a scuola, cercare di curarsi è diventato tutto procedura, controllo, una dimensione di fabbrica che ci accompagna 24 ore al giorno. Nel dibattito in corso al festival tutto questo si sta svelando: la condizione working class sembra una cosa di nicchia ma non lo è.

Tu sei figlia di operai. Il tuo “Figlia di una vestaglia blu” uscì oltre 15 anni fa, che cosa è cambiato da allora? Sarebbe stato possibile a quel tempo un festival come questo?
SB No, non sarebbe stato nemmeno pensabile. Il mio libro usci nel 2006 e ha avuto un suo successo, con riconoscimenti, dei premi, però quando mi muovevo nel mondo editoriale, anche in quello dei festival letterari, era un riconoscimento che scendeva dall’alto, sempre interno allo schema del lavoro visto dal punto di vista dominante. Com’era sempre accaduto nella letteratura sul lavoro, scritta sempre o quasi sempre da altri, non dagli operai, dai subalterni. Perciò io stessa ero guardata come una vittima o secondo il romanticismo dell’operaio, o della figlia di operai, che riesce a farsi largo. Ma ero come un fiore all’occhiello, una curiosità da esibire: purché non mi provassi a mettere in discussione il sistema editoriale e le sue logiche.
Ricordo che mi trovai con altri a fondare un gruppo che si chiamava Scrittori in causa e faceva specifiche richieste sulle problematiche contrattuali degli autori: ecco, lì trovai un grosso rigetto. Così come trovavo rigetto in autori che pur avendo scritto su tematiche del lavoro -erano gli anni della scrittura sul precariato- non volevano essere definiti scrittori del lavoro, per paura d’essere confinati in un genere letterario. Volevano essere definiti scrittori e basta. Ma per essere un pungolo rispetto alla cultura generale e provare a cambiare qualcosa nell’immaginario sul lavoro, bisogna essere uniti, non si può fare niente da soli. È quello che sta accadendo ora: si è creata una rete, grazie anche al lavoro di Alberto Prunetti, alle Edizioni Alegre, e al Collettivo di fabbrica Gkn, che ha preso la scena e ha dato una nuova immagine del lavoro e dei lavoratori. Tutto questo dimostra che il cambiamento, per essere tale, dev’essere d’insieme: deve riguardare il mondo della fabbrica, ma anche la catena editoriale, il quartiere, la scuola; in ogni ambito chi sta sotto, chi subisce le dinamiche oppressive, dev’essere protagonista del cambiamento.

Allora c’è un grande futuro per gli autori working class.
SB Forse sì. C’è bisogno di creare un nuovo immaginario, la fabbrica non è più quella di una volta, così come è cambiato il lavoro moderno. Nell’ultimo libro che ho scritto, “Se tornano le rane”, uscito per Alegre, si parla del mondo degli outlet. Chi sa come si lavora oggi negli outlet? Eppure a Barberino di Mugello ci lavorano mille persone, ben più che alla Gkn. Ma non sappiamo nulla di come si vive in quel posto, di come è organizzato quel posto, perché lo viviamo solo da consumatori, felici magari di passarci un weekend ma totalmente ignoranti di quello che succede all’interno. Guardiamo solo la facciata. E invece c’è bisogno di vedere dietro le quinte di tanti tipi di lavoro. Il lavoro sta cambiando e c’è bisogno che sia raccontato, perché raccontare è il primo passo da fare per poi riconoscersi, lottare e provare a cambiare le cose. E anche per costruire un nuovo immaginario che non sia quell’insieme di pietismo, vittimismo, romanticismo che ci portiamo dietro. Bisogna raccontare anche i nostri limiti, così come hanno sempre fatto i lavoratori Gkn, per non illudersi né illudere di potercela fare da soli: la canzone del Collettivo di fabbrica in un passaggio dice “finché ce ne sarà”. Non si tratta di fare la rivoluzione ma di innescare un cambiamento, e il cambiamento è un cammino che va fatto insieme. Vale anche per la letteratura working class.

Chi sono gli autori working class che leggi e apprezzi?
SB Intanto diciamo che vanno letti anche gli autori del passato, i libri sul lavoro scritti da autori non working class: penso per esempio a tutto il filone del neorealismo italiano e della letteratura industriale. Nel presente possiamo fare molti esempi, anche a partire dagli ospiti di questo festival, che ha stabilito un ponte diretto con la Gran Bretagna. Mi ha colpito l’ultimo libro uscito per Alegre, “La porca miseria” di Cash Carraway. Intanto perché l’autrice è una donna e non corrisponde all’immagine dell’operaio brutto, sporco e cattivo che però può essere un poeta, mentre una donna working class, di solito, può essere solo una miserabile, una poco di buono. E poi perché Cash ha un linguaggio crudissimo, ma allo stesso tempo per niente vittimistico; si presenta come una protagonista che vuole scrivere la sua storia. Per gli italiani, oltre ai libri di Prunetti, cito Claudia Durastanti: anche lei, come Alberto, si è accorta di appartenere alla working class andando in Inghilterra: fino a che non ti vedi da fuori, evidentemente, non capisci fino in fondo quello che sei. Nel suo libro “La straniera” (Bompiani) tratta anche il tema della disabilità. Poi consiglio Hunter, Ponthus, Ernaux, Cruz.

L’editoria è pronta ad accogliere queste nuove narrazioni?
SB A me sembra che l’editoria, su questi temi, sia un ambiente ancora più feroce e incattivito di un tempo forse proprio perché meno accessibile a persone che ci lavorano proveniente dalla classe lavoratrice. C’è un turnover pazzesco, situazioni di sfruttamento anche lì. Inoltre se prima eri un piccolo fiore all’occhiello, una curiosità da esibire, ora vieni etichettata come una militante, più che come una scrittrice. Donna, militante, che viene pure dall’Appennino: non si esce da lì. Annie Ernaux va alle manifestazioni con Jean-Luc Mélenchon anche con il Nobel in tasca, in Italia invece non svelano questo aspetto.

Ma occasioni come questo festival ti fanno vedere che il campo della letteratura è largo, non solo perché attira molte persone agli eventi, ma perché i lettori, i cittadini, hanno bisogno di immedesimarsi in altre storie, che non sono quelle scelte dal mainstream. E invita anche a conquistarci certi spazi della comunicazione e dell’editoria come lavoratrici e lavoratori intorno alle parole.

Il caso Gkn ha cambiato qualcosa nell’immaginario collettivo sul lavoro?
SB Secondo me sì, lo sta cambiando e questo è un elemento per cui questa esperienza è considerata pericolosa. Questo avviene non solo perché si va oltre l’immagine nostalgica dell’operaio di fabbrica che reagisce e che lotta, ma anche perché gli operai Gkn hanno saputo aprirsi, circondarsi di solidali, gettare ponti verso ambienti in apparenza distanti come i giovani dei Fridays for future, e perché hanno usato le parole, senza farsi usare. Io stessa sono venuta più volentieri a fare i turni al presidio che scrivere di Gkn. Uno, perché lo sanno fare benissimo da soli; due, perché trovavo degno di rispetto il fatto che abbiano sempre chiesto ai propri interlocutori: ma voi, come state? Quando hanno incontrato i giornalisti in cerca di storie e di casi umani, invece di raccontare i propri problemi, hanno chiesto: ma voi che contratto avete? In verità stiamo male tutti. In questo continuo ribaltare le domande, io ci trovo la forza di capovolgere un immaginario cristallizzato e non rispondente alle nuove realtà. E la consapevolezza che le cose si cambiano insieme, con l’azione collettiva.

Tu lavori alla Cgil. Quanto è stata importante la tua esperienza nel sindacato per la scrittura di “Se tornano le rane”?
SB “Se tornano le rane” è un tentativo di capovolgimento di immaginario, in questo trovo molte somiglianze con l’esperienza Gkn. Il libro cerca di dire che la forza del cambiamento non la trovi né nell’atto nostalgico, né in chi ha un unico sguardo: nel romanzo interagiscono donne di più generazioni e si dice, in sostanza, che riusciranno a immaginare cose nuove quelli che hanno meno a che fare col passato. Alle nuove e nuovissime generazioni bisogna dare più fiducia: nemmeno immaginiamo quello che potrebbero tirare fuori. Il mio lavoro ha a che fare col romanzo perché il tema dei cambiamenti sul lavoro mi ha sempre coinvolta, obbligandomi a cercare ogni volta nuove risposte, lontano da certi schemi ereditati dal passato, anche nel sindacato. Per esempio nel romanzo a un certo punto ci sono delle bambine che vanno nell’outlet a fare interviste a lavoratori e lavoratrici, immaginandosi giornaliste, e fanno il lavoro che dovrebbero fare il sindacato, la stampa. Invece lo fanno loro, e lo fanno come un gioco. Ecco, questo ribaltamento di ruoli fa capire le mancanze che ci sono state negli anni. Anche qui c’è un parallelismo con la vicenda Gkn: il Consiglio di fabbrica ha svelato mancanze istituzionali, mancanze sindacali, mancanze politiche e anche di relazioni. Io vedo molta gente che frequenta il presidio e le manifestazioni perché ha bisogno di socializzare e questo avviene mentre abbiamo chiuso case del popolo e altri luoghi di aggregazione pensando che fossero superati, che non servissero più. E invece il dopolavoro Gkn è una tessera Arci, questo stesso festival è stato pensato e tirato fuori anche da nuovi giovani dirigenti Arci, e come dicevamo prima, la working class si sta allargando, ma non se siamo ancora del tutto consapevoli.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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