Esteri / Reportage
La generazione “senza piazze” che vorrebbe una Turchia diversa da quella di Erdogan

L’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, il 19 marzo, insieme a oltre 100 persone, ha scatenato manifestazioni che non si vedevano dai tempi di Gezi nel 2013, in un Paese governato con il pugno di ferro da Erdogan. Le autorità hanno bloccato gli account social di almeno 63 organizzazioni, incarcerando oltre mille persone, tra cui dieci giornalisti. Prassi illegali e purtroppo non inedite. Il reportage da piazza Sarachane
Sono stati i giovani studenti tra i primi ad animare piazza Sarachane a Istanbul, marciando dagli atenei fino al municipio. Qui, già dal tardo pomeriggio del 21 marzo, si sono ritrovati in centinaia, due giorni dopo l’arresto del sindaco Ekrem İmamoğlu.
“Gli studenti sono arrivati, dov’è Özgür?”, gridano in coro, esortando il leader del Partito popolare repubblicano (Chp), Özgür Özel, a uscire e parlare alla folla. “Dovrebbe essere lui a organizzare noi, invece siamo noi a organizzare l’opposizione”, racconta Tuğçe, 21 anni, che ha preferito non rivelare il suo vero nome per timore di ripercussioni.
Sono la generazione senza piazze, cresciuta senza conoscere un’altra Turchia se non quella di Recep Tayyip Erdoğan. Abituati al massimo a protestare negli atenei, dove le manifestazioni vengono sistematicamente represse. Per Tuğçe, la protesta è iniziata già in mattinata, all’Università di Istanbul, che pochi giorni prima aveva revocato ufficialmente il diploma di İmamoğlu per presunte irregolarità. Se confermata, questa decisione potrebbe impedirgli di candidarsi alle elezioni presidenziali, previste per il 2028. Il suo arresto, invece, non lo esclude automaticamente dalla corsa, mentre una condanna definitiva lo squalificherebbe.
“Andremo avanti finché questo Paese non cambierà”, prosegue Tuğçe, chiedendo risposte non solo a Erdoğan, ma anche a un’opposizione in cui molti di loro faticano a riconoscersi.
Verso sera, la folla continua a crescere per il rally indetto dal Chp. Arrivano i kemalisti della prima ora, fedeli al partito da sempre, ma anche esponenti della sinistra, giovani ultranazionalisti, madri con i figli e persino persone che non avevano mai partecipato a una manifestazione.
“Sono venuto per oppormi all’illegalità in Turchia -dice Yüksel Çakmak, un falegname di 51 anni alla sua prima piazza-. Quello che sta accadendo non riguarda solo Ekrem İmamoğlu. È un’ingiustizia che colpisce tutti”.
Nonostante il divieto di raduno, la mobilitazione non si ferma. Davanti al municipio le folle si fanno sempre più dense e, nel fine settimana, centinaia di migliaia di persone riempiono le strade. L’ondata di proteste si estende rapidamente, raggiungendo almeno 55 delle 81 province della Turchia.

“La gente è stanca in questo momento, vuole un cambiamento”, dice una giovane studentessa di Architettura, anche lei ventunenne, mentre l’inconfondibile voce roca di İmamoğlu riecheggia dagli altoparlanti nella piazza gremita, una registrazione di uno dei suoi discorsi più celebri. “È come se questa fosse la nostra ultima possibilità, perché stanno diventando sempre più duri con gli studenti, con le donne. Si sono accumulate troppe cose, la gente semplicemente non ne può più”.
Non si vedevano manifestazioni di questa portata dai tempi di Gezi nel 2013, in un Paese governato con il pugno di ferro da Erdoğan, la cui ascesa politica, ironicamente, avvenne in circostanze simili. Nel 1999, quando era sindaco di Istanbul, l’attuale presidente turco fu arrestato e condannato a quattro mesi di carcere per aver recitato una poesia, un atto che gli valse l’accusa di incitamento all’odio religioso.
Il 23 marzo l’ufficio del procuratore capo di Istanbul ha confermato l’arresto di İmamoğlu, trasferito poi nel carcere di Silivri con l’accusa di “costituzione e gestione di un’organizzazione criminale, corruzione, estorsione, registrazione illecita di dati personali e manipolazione di gare d’appalto”. Altre 50 persone sono state arrestate nell’ambito della stessa inchiesta, mentre la procura, con una nota ufficiale, ha dichiarato di “non ritenere necessaria, in questa fase, una decisione” riguardo al secondo capo d’accusa per favoreggiamento al terrorismo.
“È una pratica illegale e non è la prima volta: migliaia di giornalisti e figure pubbliche sono in prigione a causa di Tayyip Erdoğan”, aggiunge Melis, 24 anni, una manifestante e studentessa di master, riferendosi alla pratica consolidata del governo Erdoğan di usare la legge e il sistema giudiziario come strumento di repressione. Secondo i critici, il controllo sull’apparato giudiziario si è intensificato soprattutto dopo il fallito colpo di Stato del 2016, quando migliaia di giudici e procuratori furono licenziati e sostituiti con figure vicine al governo.
Più di 600 persone sono state arrestate tra venerdì e sabato, secondo il ministro dell’Interno, mentre le autorità hanno bloccato gli account social di almeno 63 organizzazioni. Otto giornalisti sono stati arrestati durante raid della polizia nelle loro abitazioni nella notte tra domenica 23 e lunedì 24 marzo.
“Dopo Gezi, molte persone furono arrestate e si instaurò un clima di paura -continua Melis-. Tutti avevano paura, finora hanno atteso. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Penso che sia un momento simile a Gezi”.
Per sottolineare la natura apartitica del movimento di protesta, il Chp ha invitato tutti i cittadini turchi, non solo gli 1,7 milioni di membri del partito, a partecipare al voto simbolico delle primarie, pianificate da tempo per il 23 marzo, durante il quale Ekrem İmamoğlu è stato nominato candidato presidenziale del partito. Il Chp ha dichiarato di aver registrato 15 milioni di voti, per lo più solidali, per İmamoğlu.
L’opposizione filo-curda, terza forza in parlamento, che aveva stretto un’alleanza de facto con il Chp nelle elezioni municipali dello scorso anno, ha anch’essa dichiarato il proprio sostegno alle proteste.
“Questi colpi di Stato mirano a minare il potere del popolo e sono destinati a fallire”, ha dichiarato Tuncer Bakırhan, co-presidente del Partito dell’uguaglianza e della democrazia dei popoli (Dem). “Le azioni intraprese mentre si parla di pace sono dannose. Siamo al fianco di chiunque veda usurpati i propri diritti, da Van a Istanbul”, ha detto riferendosi a una città nell’Est a maggioranza curda del Paese.
I Dem sono impegnati in negoziati con il governo dopo che il mese scorso Abdullah Öcalan, il leader imprigionato del Pkk -il partito dei lavoratori del Kurdistan, un gruppo considerato terroristico dalla Turchia e da altri Paesi- ha esortato i suoi membri a deporre le armi e a porre fine a 40 anni di insurrezione.
Ma per le strade molti curdi rimangono indecisi se unirsi al movimento di protesta. Pur criticando l’arresto di İmamoğlu, che è stato rimosso dal suo incarico di sindaco, sono anche cauti nel notare che da anni i sindaci nel Sud-Est vengono rimossi e sostituiti da commissari nominati dal governo. Rimangono inoltre sospettosi nei confronti della fazione più nazionalista del Chp, rappresentata da figure come il sindaco di Ankara, Mansur Yavaş, che ha preso la parola criticando il governo per aver “dato caramelle” ai curdi che celebravano il Newroz la settimana scorsa, mentre le manifestazioni a Sarachane, così come ad Ankara e a Izmir, sono state accolte con gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e proiettili di gomma.
Özgür Özel si è affrettato a porgere le sue scuse per quei commenti, esprimendo solidarietà sia per il leader curdo Selahattin Demirtaş, in prigione dal 2016, sia per il presidente del partito nazionalista di estrema destra Zafer (Partito della Vittoria), Ümit Özdağ, anch’egli in carcere.
“Sono anni che penso di emigrare. Potrei farlo attraverso rotte illegali -osserva Haydar, un musicista trentunenne ed ex sostenitore del partito nazionalista di estrema destra Mhp, alleato di Erdoğan, commentando la crisi economica che si trascina da anni-. Ormai, viviamo in un Paese dove non riesco nemmeno più a permettermi di mangiare carne”.
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