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Economia / Opinioni

La disuguaglianza è il problema. Guardare al Pil è un esercizio inutile

© Michael Dziedzic - Unsplash

Contrastare un’inflazione che sta facendo esplodere le disparità si può. Ma la narrazione dominante celebra la capacità del mercato di fare miracoli. Morale: in Italia la posizione patrimoniale dell’1% più facoltoso vale oltre 40 volte la ricchezza detenuta dal 20% più povero della popolazione. L’analisi di Alessandro Volpi

L’inflazione continua a mordere, colpendo soprattutto le fasce di reddito più basse. È evidente che le condotte della Banca centrale europea (Bce) sono inefficaci a ridurla in maniera significativa, oltre che sbagliate. Ma che cosa potrebbe fare il governo italiano, senza aspettare che da Francoforte la presidente Christine Lagarde cambi rotta?

Potrebbe introdurre misure di regolazione dei prezzi, un calmiere ai rincari eccessivi, e una serie di sostegni ai redditi per sostenere il potere d’acquisto. A rendere possibile una simile soluzione è proprio l’inflazione che gonfia il Prodotto interno lordo (Pil) nominale e migliora il rapporto tra debito e Pil. Peraltro, il 75% di quello italiano è a tasso fisso e le nuove emissioni di titoli avvengono ancora a tassi più bassi rispetto alla media del debito in scadenza.

Nonostante la Bce, dunque, ci sono i margini per contrastare un’inflazione che sta facendo davvero male e sta facendo aumentare le disuguaglianze. Per troppo tempo la narrazione dominante -e ormai decisamente tossica- ha celebrato la capacità del mercato di fare miracoli. La recente relazione dell’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (Arera) ha messo in luce come negli ultimi due anni le finanze statali abbiano pagato bonus per far fronte agli alti prezzi dell’energia per quasi due miliardi di euro l’anno, una cifra che sembra destinata a dover essere finanziata anche nei prossimi anni, nonostante una parziale riduzione dei prezzi del gas. Nel 2024 peraltro verrà meno il regime di tutela che obbligherà tutti gli utenti a rivolgersi al mercato.

Perché, invece, non si ripubblicizzano i monopoli naturali, utilizzando le gigantesche entrate degli extra-profitti delle società partecipate e le risorse destinate ai bonus, introducendo così un sistema di prezzi regolati a sostegno delle fasce di reddito più basse e delle imprese produttive?

A sorreggere la legittimità di queste domande sono alcuni dati. A fine 2021 la distribuzione della ricchezza nazionale netta vedeva il 20% più ricco degli italiani detenere oltre due terzi della ricchezza nazionale (68,6%), il successivo 20% era titolare del 17,5% dei beni, lasciando al restate 60% appena il 14% della ricchezza nazionale. Se si stringe il fuoco il dato è ancora più impressionante. La ricchezza del 5% più benestante degli italiani (titolare del 41,7% del totale) era superiore, a fine 2021, allo stock detenuto dall’80% più povero dei nostri connazionali (31,4%). La posizione patrimoniale netta dell’1% più facoltoso (che deteneva a fine 2021 il 23,3% della ricchezza nazionale) valeva oltre 40 volte la ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana. 

Il principale problema del nostro Paese è dunque quello delle disuguaglianze. È del tutto inutile fare riferimento all’andamento del Pil se poi nella sua composizione tutta la ricchezza è concentrata in poche mani. È altrettanto inutile parlare di politiche sociali e bonus perché è evidente che non sono state in alcun modo sufficienti a contrastare le disuguaglianze, che sono state invece favorite dalla riduzione del carico fiscale per le fasce più ricche e dalla deregolamentazione diffusa. Alla luce di questi dati, una forza politica che avesse come obiettivo il superamento delle disuguaglianze avrebbe un programma molto facile da scrivere.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.

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