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Finanza / Opinioni

La crisi della Volkswagen e l’austerità della “nuova” Commissione europea

© Mehdi Mirzaie - Unsplash

Le politiche europee -Bce in testa- e la gestione della guerra in Ucraina hanno determinato un disastro economico e finanziario. La risposta autoreferenziale ed egoista della Germania per rilanciare la propria produzione interna prelude a un suicidio collettivo. E i nomi scelti da von der Leyen non danno sollievo. Se non a pochi fondi speculativi americani. L’analisi di Alessandro Volpi

Volkswagen sta ipotizzando la chiusura di tre stabilimenti in Germania e un piano di razionalizzazione dei “costi” di circa 20 miliardi di euro. Le cause di simili difficoltà sono tante ma due sono particolarmente evidenti.

La prima è la pessima gestione da parte della Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen di annunciare e gestire il passaggio all’auto elettrica. La seconda è la guerra in Ucraina e le sanzioni che hanno impennato i costi tedeschi dell’energia e hanno interrotto le catene di produzione del valore: in quest’ottica hanno pesato anche le minacce di dazi doganali verso la Cina. A questi due fattori bisogna aggiungere la totale mancanza di una politica europea di spesa industriale finanziata dalla Banca centrale europea (Bce) e gli assalti al sistema bancario tedesco da parte dei grandi fondi americani.

Di fronte a una situazione così critica è molto probabile che il governo tedesco, anche nel tentativo di frenare la protesta sociale, faccia ricorso alla possibilità di emettere debito pubblico federale e di utilizzare gli aiuti di Stato per rilanciare la produzione interna, operando al contempo per riportare in patria una parte delle filiere di subfornitura ora sparse per l’Europa, a cominciare dall’Italia.

In pratica una Germania ancora più autoreferenziale ed egoista in grado di mettere in crisi i debiti degli altri Paesi, destinati a subire la concorrenza del debito tedesco, e a cercare l’autosufficienza, magari ricorrendo a piene mani al carbone e bloccando i flussi migratori. Le politiche europee e la gestione della guerra hanno determinato un disastro, di cui la vicenda incredibile del North Stream 2 è il paradigma, e la risposta tedesca prelude a un suicidio collettivo, difficilmente frenato dalle “strategie” della nuova Commissione dove spiccano due nomi in particolare in riferimento al modello economico e finanziario.

Il primo è quello della commissaria ai Servizi finanziari e all’unione degli investimenti, la portoghese Maria Luís Albuquerque, che presenta un curriculum quasi paradigmatico dello “spirito” della nuova compagine von der Leyen. È stata infatti artefice della “ristrutturazione” del bilancio portoghese durante il periodo del controllo esercitato dalla “troika” sui conti di quel Paese, che si tradusse in un profondo taglio alla spesa pubblica e nella definizione di un modello molto simile a un paradiso fiscale. Dopo questa esperienza, Albuquerque è entrata nel board di Arrow, un grande fondo di gestione del debito e del risparmio con sede a Londra, e attualmente siede nel consiglio di sorveglianza per l’Europa di Morgan Stanley. 

L’altro nome è quello di Piotr Serafin, commissario polacco al bilancio, ex capo di gabinetto di Donald Tusk che è stato investito del nuovo ruolo europeo per attuare il disegno di von der Leyen di abbandonare le “politiche” di bilancio per approdare a quelle di “programmazione”, costruite su obiettivi specifici e destinate a finanziarsi in larga parte con i capitali privati. Insomma il modello è chiaro; austerità, finanziarizzazione e largo spazio ai capitali privati in una vasta area di ambiti di intervento.

Del resto, in piena coerenza con una simile linea, pur in presenza di un’inflazione poco sopra il 2% e di un’economia dell’Eurozona in piena crisi, Christine Lagarde, presidente della Bce, e i “frugali”, hanno deciso di ridurre il costo del denaro al 3,65 che diventa 3,90 nei casi più complicati. Dunque non un gran taglio, peraltro, limitato in termini reali, al netto degli adeguamenti tecnici, a 25 punti. Soprattutto, il tasso sui depositi, quello che remunera i depositi delle banche presso la Bce, rimane al 3,5%: quindi quale banca presterà avendo la certezza di un tale rendimento granitico.

Siamo quindi ancora in pieno regime restrittivo e non a caso l’ineffabile Lagarde definisce “formidabile” il Piano Draghi proprio perché non prevede un’azione espansiva della Bce, celebra la finanziarizzazione del risparmio e demolisce i debiti nazionali e la spesa pubblica ad essi connessa.

Nel frattempo, come accennato, la penetrazione dei grandi fondi continua a partire proprio dalla pericolate Germania. È probabile che Unicredit e Commerzbank, la quarta banca tedesca, si fonderanno dando vita a un colosso con oltre 1.100 miliardi di euro di patrimonio o che diano vita, in ogni caso, a ulteriori legami azionari. Lagarde si è detta favorevole, con fin troppo zelo, all’operazione in nome della necessità di avere mega istituti europei. Dunque parrebbe una prima applicazione della dottrina di Draghi, sostenitore delle grandi dimensioni. 

In realtà le cose non stanno proprio così. La fusione delle due banche renderà ancora più rilevante il peso del maggiore azionista privato di entrambi gli istituti che è BlackRock, in possesso del 7% di Unicredit e di quasi il 6% di Commerzbank; una posizione che consentirà al super fondo americano di condizionare le scelte di investimento del nuovo colosso, indirizzandole assai probabilmente verso i prodotti finanziari del mercato statunitense, ovviamente a partire dalle azioni di società dove BlackRock ha un grande peso. Naturalmente, poi, il nuovo colosso beneficerà a piene mani della già ricordata remunerazione dei depositi garantiti dalla Banca centrale europea.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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