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Economia / Opinioni

Il Patto di stabilità europeo e quell’impossibile ritorno a una normalità che non esiste più

© Ralph Hutter - Unsplash

I vincoli di bilancio definiti dall’Europa erano stati sospesi nel 2020 per affrontare le ricadute negative della pandemia. Nel gennaio 2024 è prevista la fine di questa deroga: una scelta che mette in discussione la tenuta dell’economia italiana. Tra costo del debito e tagli alla spesa pubblica. L’analisi di Alessandro Volpi

Dal 2020, per fronteggiare gli effetti della pandemia, i vincoli di bilancio definiti dall’Europa sono stati sospesi: non valevano più, temporaneamente, i parametri del 3% nel rapporto deficit/Pil e del 60% in quello tra debito e Prodotto interno lordo. L’Italia, che già aveva un debito lontano dal 60% del proprio Pil, ha utilizzato a piene mani la deroga, tanto è vero che il debito pubblico, dopo essere cresciuto dal 2015 al 2019 di 170 miliardi di euro, è aumentato dal 2020 ad oggi di altri 450 miliardi di euro. Con questo significativo indebitamento sono state coperte, in larga misura, due corpose leggi di bilancio e soprattutto le loro cospicue integrazioni, necessarie per finanziare la spesa pubblica, salita di oltre 150 miliardi di euro tra il 2019 e il 2023 e pari a oltre 1.100 miliardi di euro all’anno.

È evidente un primo dato: l’Italia ha affrontato la crisi pandemica aumentando il debito e accrescendo la spesa pubblica corrente, che si è indirizzata a finanziare molteplici bonus e misure una tantum, in molti casi, come per il taglio del cuneo fiscale, con carattere però palesemente strutturale. Questa dinamica è stata resa praticabile, oltre che dalla deroga, dagli acquisti di titoli del debito pubblico italiano da parte della Banca centrale europea e dai suoi tassi sostanzialmente bassi. Una simile condizione, rappresentata dalla deroga e dall’azione della Bce, ha permesso al “sistema” italiano di reggere, sia pur con un’economia reale sempre più debole, coltivando l’idea di poter ridurre ulteriormente il carico fiscale e di non dedicare troppa attenzione ai 100 miliardi di euro di evasione fiscale annua, a un’economia sommersa che vale quasi 200 miliardi e ai circa 180 miliardi di euro depositati da italiani nei paradisi fiscali.

A partire dall’autunno del 2021, tuttavia, i tassi hanno cominciato a salire nel tentativo di fronteggiare l’inflazione speculativa e gli acquisti di titoli ad opera della Bce si sono rapidamente ridotti fino a cessare quasi del tutto. In conseguenza di tutto ciò, il costo del collocamento del debito italiano, che dispone di una durata di scadenza di circa sette anni, ha cominciato a crescere tanto da raggiungere i 100 miliardi di euro già nel 2023 e puntare ai 130-140 miliardi nel 2025: con oneri di questo tipo, che rendono il pagamento degli interessi la terza voce di spesa dello Stato, superiore all’intera spesa sanitaria pubblica, per capirci, è chiaro che il meccanismo su cui si è fondata la tenuta dell’economia italiana si è inceppato. Ma il quadro è reso più cupo dal ripristino, dal gennaio del 2024, dei vincoli europei che porranno fine alla deroga avviata nel 2020.

Al di là delle modalità di ripristino del Patto, è evidente che per il nostro Paese sarà molto complicato tenere in piedi una spesa pubblica decente e capace di garantire i servizi fondamentali. Si è discusso di sostituire il riferimento al deficit con quello alla spesa netta, che dovrebbe essere definita e realizzata annualmente dagli Stati, senza considerare gli interessi sul debito e senza considerare le spese “congiunturali”, ma sembra sempre più chiaro che la Germania e i “rigoristi” non siano disponibili a cancellare il riferimento al 3% e comunque anche il richiamo alla spesa netta implica un percorso di riduzione del debito che molto difficilmente è pensabile solo con un’ipotetica, e formidabile, crescita del Pil e che può essere solo edulcorato, ma certo non sanato nei suoi effetti recessivi, da una dilatazione dei tempi di rientro. Qualsiasi formulazione dei vincoli, più o meno stringente, tenderà quindi a contrarre gli spazi di copertura delle misure adottate con il ricorso al deficit: nell’ultima Legge di bilancio, su 24 miliardi totali quasi 15 sono coperti con deficit, e quindi con nuovo debito.

Il ritorno del Patto, molto probabilmente, dimezzerebbe questo spazio di copertura e, in parallelo, obbligherebbe a destinare una parte delle pochissime risorse disponibili a finanziare la riduzione del debito pubblico, magari costringendo all’impegno di qualche altro miliardo di euro ogni anno. Sarebbe la fine della finanza pubblica e non tanto per le sanzioni previste dall’Europa in caso di mancato rispetto dei reintrodotti parametri, ma perché il mancato rispetto metterebbe i titoli del debito pubblico italiano nel mirino degli speculatori pronti a scommettere su un loro immediato tracollo a cui lo Stato potrebbe tentare di reagire solo aumentando i rendimenti dei propri titoli con costi insostenibili per le finanze pubbliche. Una normalità impossibile.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. “Prezzi alle stelle. Non è inflazione, è speculazione” (Laterza, 2023) è il suo ultimo libro

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