Finanza / Opinioni
La guerra doganale degli Stati Uniti alla Cina e la bolla della superfinanza
Biden e Trump minacciano nuovi dazi sui prodotti di Pechino. Una manovra elettorale che potrebbe però portare a una “dedollarizzazione” della Cina e dei 120 Paesi dei quali è il primo partner commerciale. Con il rischio di dare ancora più peso a fondi come BlackRock, Vanguard e State Street, che già gestiscono un potere senza precedenti. L’analisi di Alessandro Volpi
I due candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Joe Biden e Donald Trump, stanno quotidianamente minacciando l’introduzione di ulteriori, pesanti dazi doganali nei confronti dei prodotti cinesi. Lo fanno perché la retorica del protezionismo in nome del buy american ha fatto spesso presa sull’elettorato e perché i titoli dei grandi gruppi americani si impennano ogni volta che vengono anche solo ipotizzati nuovi dazi, con grande gioia per i fondi azionisti degli stessi gruppi.
La retorica e la finanza, tuttavia, rischiano di fare male agli Stati Uniti. La Cina, infatti, vanta un attivo commerciale nei confronti degli Stati Uniti di circa 250 miliardi di dollari l’anno; proprio questo attivo costituisce una motivazione forte per la Cina a usare il dollaro.
Ma se davvero il protezionismo statunitense riducesse tale avanzo, non sarebbe da escludere che la Cina potrebbe rivedere questa accettazione del dollaro come propria moneta internazionale. Non bisogna dimenticare infatti che la Cina è il primo partner per ben 120 Paesi, con un rilievo crescente del cosiddetto “Sud globale” e con un peso molto significato dell’Unione europea verso cui l’impero celeste ha una bilancia commerciale largamente attiva.
La guerra doganale degli Stati Uniti verso la Cina potrebbe essere così la spinta per una dedollarizzazione, in parte già avviata, a cominciare dai titoli del debito Usa che non compaiono più nel portafoglio cinese. In quel caso l’unico vero strumento di tenuta del dollaro sarebbe la liquidità dei grandi fondi finanziari, destinati a diventare ancora più decisivi per le sorti della prima potenza economica mondiale, chiunque ne sarà il presidente.
Del resto, la forza di quei fondi è ormai impressionante. Oggi dieci società quotate allo Standard & Poor 500 (S&P 500, l’indice delle prime aziende statunitensi per capitalizzazione) valgono oltre 15mila miliardi di dollari, pari al 34% dell’intero indice: una quota mai raggiunta nella storia. Un valore vicino al Prodotto interno lordo (Pil) della Cina nelle mani di dieci società che hanno due caratteristiche ben evidenti: sono aziende legate all’innovazione tecnologica e hanno i tre grandi fondi, Vanguard, BlackRock e State Street nel proprio azionariato con una quota vicina o superiore al 20%.
Mai nella storia del capitalismo si era verificata una simile concentrazione di potere con un valore azionario legato alla forza dei fondi di spingere i prezzi delle azioni delle loro società molto di più di quanto non siano in grado di fare fatturati e utili. In sintesi, nelle Big tech (Microsoft, Apple, Nvidia, Amazon, Meta, Alphabet/Google) la liquidità dei fondi loro azionisti gonfia i valori azionari moltiplicandoli rispetto ai profitti reali. La differenza con il passato è evidente; nel 2000 le prime dieci società dello S&P 500 valevano circa quattromila miliardi di dollari e, oltre a Microsoft, comparivano tra loro General Electric, Walmart, Exxon Mobil, At&T e Citigroup; tanta economia reale, con utili alti senza la liquidità drogata dei fondi.
Quella bolla è scoppiata. Quella attuale è tre volte più grande e molto drogata e continua a crescere. Il fondo BlackRock ha “lanciato” due Exchange-traded fund (Etf) sui Buoni del Tesoro poliennali (Btp) italiani. In pratica il colosso del risparmio ha creato due prodotti finanziari che replicano l’andamento dei titoli di Stato italiani: una sorta di strumento “parassita” che guadagna sull’andamento dei titoli di Stato più venduti. La grande finanza utilizza il debito pubblico come canale per ampliare i confini della finanziarizzazione, portandone la soglia a cinque euro, e per trovare liquidità. La trasformazione persino dei micro-risparmiatori in soggetti finanziari, legati alle “big three”, è favorita da un’aliquota del 12,5%. Il mutamento genetico di vaste fasce sociali è in atto. In questa partita, però, la superfinanza Usa può incontrare ostacoli importanti proprio dalla Cina.
Le prime quattro banche al mondo per valore degli attivi sono cinesi e sono, rigorosamente, di proprietà dello Stato. Il volume complessivo di tali attivi è di poco inferiore ai 20mila miliardi di dollari; una montagna di risparmio gestito che, se pur sottoposto a vari dubbi per l’assenza di una reale “certificazione”, costituisce un unicum nel panorama globale, superiore agli attivi delle prime banche Usa e paragonabile solo ai super fondi. A lungo proprio le banche a stelle e strisce e più di recente i fondi hanno provato a entrare in tale sistema, utilizzando vari canali, in parte legati all’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ma senza troppo successo.
In questo contesto si situa il tentativo, esplicito, del presidente francese Emmanuel Macron di stabilire un rapporto privilegiato con l’omologo cinese Xi Jinping. Questa grande attenzione forse si può spiegare anche con l’ambizione della finanza francese, a cominciare da un colosso come Amundi, di riuscire a stabilire relazioni con il sistema bancario cinese, costruendo un argine allo strapotere delle “big three” americane e fornendo, al tempo stesso, alle banche cinesi una strada per entrare nella finanza “occidentale”, mettendo a frutto una parte di quella sterminata massa di attivi. Si profilerebbe uno strano quadro, quasi surreale, ma molto efficace, in cui il comunismo finanziario si inserirebbe nella inevitabile guerra intestina del turbocapitalismo nel tentativo di abbattere un monopolio che ha distrutto il libero mercato.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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